“Meminisse iuvabit”, gioverà ricordare: così recita il cartoncino che Aldo Olschki – il figlio di Leo Samuele Olschki, ossia del capostipite dell’omonima Casa editrice fiorentina – appose alla documentazione da lui conservata sulle leggi razziali. I

l manifesto sulla razza era stato pubblicato nel luglio 1938: dalla sera alla mattina, cittadini italiani per origine, o naturalizzati con il conferimento della cittadinanza per meriti, diventarono reietti perché ebrei. Un’infamia della quale l’Italia porta perpetua vergogna. Oggi Daniele Olschki, nipote di Aldo e titolare della Casa editrice, ripercorre in un opuscolo asciutto asciutto, intitolato appunto Gioverà ricordare, quel che visse in quegli anni il fondatore Leo, quel che dovette sopportare chi con lui lavorava, quali marosi squassarono un progetto editoriale costruito con tanta dedizione.

Leo era nato in Prussia nel 1861; venne in Italia forse per motivi di salute o per amore degli studi classici, e per Dante. Approda a Venezia, nel 1897 si stabilisce a Firenze, e lì fa crescere la sua impresa. Si lega a intellettuali di spicco, l’Italia è la sua seconda patria, si sente italiano. L’ondata di germanofobia che monta nel Paese negli anni della Prima guerra lo induce a trasferirsi a Ginevra, da dove continua a dirigere l’attività. Ritorna in Italia a guerra conclusa e riorganizza l’azienda con i figli Aldo e Cesare. Il 13 agosto 1926 riceve la cittadinanza italiana.

Il successo della Casa editrice cresce: lo testimoniano, nel 1936, i festeggiamenti per il cinquantenario. Di lì a poco, il baratro. Nel 1938 Leo riceve l’ingiunzione di denunciare sia i lavoratori sia gli autori ebrei della ditta. Subito dopo, gli viene chiesto di sostituire il nome della Casa editrice con uno “ariano”. Il che significa: cancellare simbolicamente l’edificio nel quale un uomo ha investito lavoro, ingegno, risorse, fatica, sentimenti. In breve, se ne annulla l’identità. Leo si oppose, riuscì a spuntarla. Ma il decreto promulgato il 9 febbraio 1939, che limita il diritto di proprietà immobiliare e di attività commerciale e industriale per gli ebrei, colpisce l’azienda. Giunge infine la notizia che il 17 novembre a Leo è stata revocata la cittadinanza italiana. Non resta che l’esilio. Parte, col cuore a pezzi, non però vinto, e con la speranza di ritornare un giorno, e ricostruire di nuovo. Non gli fu concesso: si spense a Ginevra il 17 giugno 1940.

Liliana Segre, nella prefazione, sottolinea quanto dice Daniele Olschki nel ricostruire la vicenda umana e professionale del Fondatore: Leo non riconobbe “i prodromi dell’inimmaginabile situazione che si sarebbe trovato a vivere”. E aggiunge un ricordo personale, lacerante: “Furono molti, se non tutti, gli ebrei che non colsero certi segnali. In troppi si illusero che in Italia sarebbe stato impossibile quanto si sapeva stava accadendo nella Germania nazista. Anche la mia famiglia fu vittima di un simile abbaglio. Ricordo che quando avremmo avuto ancora la possibilità di emigrare in America i miei famigliari preferirono rimanere, convinti che mai sarebbe accaduto l’irreparabile. Che invece alla fine accadde”.

Oggi, grazie ad Aldo e Cesare, ad Alessandro, a Daniele e ora anche a Gherardo, la Casa editrice Olschki è in pieno rigoglio. Risplende nell’editoria erudita di qualità, e l’Italia della ricerca filosofica, storica, filologica e artistica ne trae vanto nel contesto internazionale. Certo, gioverà ricordare sempre: meminisse iuvabit, appunto. Perché i tempi dell’orrore non tornino mai più.

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