Il Medio Oriente è di nuovo in fiamme, ma questa volta si rischia grosso. Il nuovo fronte è costituito da due nazioni, l’Iran e Israele, i cui leader hanno bisogno di esercitare i propri muscoli militari. Per entrambi la guerra è infatti essenziale. Netanyahu ne ha bisogno per rimanere al potere e schivare la legge e le indagini su come è stata gestita la tragedia del 7 ottobre; la teocrazia iraniana, che da sempre si nutre dell’odio verso Israele, vede nel conflitto e nella difesa di Gaza la legittimazione della sua leadership nel mondo mussulmano, un primato che si contende con Riad.

L’occidente, e in particolare gli Stati Uniti, si trovano nell’impossibilità di evitare l’escalation del conflitto. I tentativi di pacificazione, specialmente quelli diretti a bloccare la risposta bellica di Israele all’attacco iraniano di pochi giorni fa, confermano però non solo la debolezza della democrazia americana ma anche quella delle democrazie occidentali; il ruolo di spettatori nell’apertura di un nuovo fronte anti israeliano a pochi passi dal Vecchio Continente cozza con l’immagine di potere della democratica Europa.

Tante le riflessioni a riguardo, prima fra tutte lo sganciamento esistenziale dell’attuale governo di Israele dai suoi tradizionali alleati e sostenitori storici. Come chi gestisce la guerra a Gaza ha fatto capire al mondo, Israele fa quello che vuole, non ciò che suggeriscono Washington o Bruxelles. Un atteggiamento che mette in grave difficoltà la Casa Bianca a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Negli Usa si ha la sensazione che Biden appaia politicamente indebolito a causa dell’incertezza su quale politica seguire nella guerra di Gaza e dall’irrilevanza dei suggerimenti di Washington in relazione a quella tra Iran e Israele. Nell’America democratica si respira un’aria di preoccupazione e c’è chi inizia a parlare della necessità di un cambiamento radicale del fronte liberal. L’impossibilità di pacificare il Medioriente e di porre fine alla guerra a Gaza, dunque, potrebbero paradossalmente facilitare l’ascesa alla Casa Bianca di Trump, individuo che si propone al pubblico come l’uomo forte, capace di gestire qualsiasi crisi – da quella degli immigrati a quella dei senzatetto, dalle vittime dell’epidemia degli oppioidi fino alla crisi mediorientale. Il motivo? Trump da sempre proietta l’immagine del politico in grado di prendere decisioni scomode.

Naturalmente tutto ciò fa parte della grande illusione della sua politica, ma in un momento come questo, di incertezza direzionale politica, questo messaggio potrebbe apparire come reale.

L’escalation della guerra in Medio Oriente avrà anche un impatto sulle elezioni nel Regno Unito. Dopo aver appoggiato apertamente Israele all’indomani del 7 ottobre, da qualche settimana i vertici del partito laburista si sono trasformati nei difensori dei palestinesi di Gaza. I labour si presentano così in netta contrapposizione al governo di Sunak, adoperandosi per un immediato cessate il fuoco. Una mossa possibilmente vincente se la guerra si allargasse a macchia d’olio nella regione.

Sul piano economico, infine, l’apertura del nuovo fronte bellico si tradurrà in un’impennata dei prezzi del petrolio e quindi dell’inflazione, che a sua volta impedirà il tanto atteso taglio dei tassi d’interesse. Alla Fed si parla adesso di cambio direzionale: l’ipotesi di un aumento dei tassi nei prossimi mesi non è più così assurda. Per chi è attento alle vicende politiche ma anche per chi si perde nei meandri della diplomazia degli incompetenti che governano gran parte del mondo, l’idea che i tassi d’interesse si muoveranno a fine giugno verso l’alto potrebbe influenzare anche il voto alle elezioni europee e scardinare la maggioranza attuale nel Parlamento europeo.

L’inversione di marcia confermerebbe quello che molti pensano: che la politica perseguita da Bruxelles è tanto fallimentare quanto quella perseguita da Washington. Il rischio è il ritorno del populismo da due soldi alla Trump.

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