Estorsioni e ricatti alla società, spedizioni punitive nei confronti di rivali, botte a giornalisti scomodi. Intimidazioni e aggressioni ai giocatori, spaventati da irruzioni negli spogliatoi, oppure ricercati nei locali e nei ristoranti della città e redarguiti per essere usciti di sera. In parallelo alla pressione esercitata da questo gruppo di ultrà, crescevano i loro interessi economici occulti nella gestione di gadget, feste, biglietti e addirittura della sicurezza stessa della squadra, tutto gestito attraverso una rete di prestanome. Negli anni, secondo la Procura di Genova, il tifo organizzato del Genoa è stato catturato e monopolizzato da una frangia estrema, che ha portato in dote l’ombra di rapporti con la criminalità organizzata e impresso una svolta verso l’estrema destra. Un “sodalizio criminoso” che, per i pm Francesca Rombolà e Giancarlo Vona, è un’associazione a delinquere e va punita con 33 anni di carcere complessivi nei confronti di 14 dei 15 imputati.

Al vertice di questa organizzazione, secondo la pubblica accusa, c’era Massimo Leopizzi, leader carismatico della ex “Brigata Speloncia”, con alle spalle precedenti penali per tentata estorsione, lesioni, porto e detenzione illegale d’armi legata a una sparatoria. Una vecchia storia, quest’ultima, legata secondo gli inquirenti a una riscossione crediti nell’ambito della droga per conto di un altro degli imputati, Fabrizio Fileni, detto Tombolone. Per Leopizzi i pm hanno chiesto otto anni di carcere, per Fileni tre anni e mezzo; chiesti due anni e quattro mesi nei confronti di Piermarco Pellizzari, soprannominato Cobra, ex leader del club via Armenia 5r, e 1 anno e 4 mesi per “Davidino” Masala, già condannato ad anni di carcere per narcotraffico.

Leopizzi, colpito nel tempo da vari Daspo, gestiva ristoranti e panifici attraverso teste di legno. Soprattutto, era socio occulto della Sicurart, società di sicurezza che per un certo periodo ha fornito steward al Genoa. La ditta aveva un nome “pulito”, quello di Artur Marashi, albanese che in altre indagini è emerso tra i contatti del narcotrafficante serbo Safet Altic e di personaggi vicini alla ‘ndrangheta. Marashi, l’unico in questa vicenda a non essere tifoso, era una sorta di cerniera tra la squadra e il tifo organizzato: da un lato rassicurava i calciatori e si accreditava come garante della loro sicurezza; dall’altro, lo accusano i pm, era partecipe degli interessi occulti di Leopizzi. La Sicurart, in definitiva, sarebbe stata una sorta di paravento per mascherare i proventi delle estorsioni: Leopizzi e i suoi fedelissimi erano in grado di orientare le contestazioni, fare pressioni sulla squadra, decretare se un giocatore era degno o meno di vestire la maglia, se un allenatore poteva restare o andare via.

A subire i ricatti era la società, che, però, per gli investigatori recita in questa vicenda un ruolo quantomeno ambiguo. L’ex amministratore delegato Alessandro Zarbano, sentito come testimone, rischia di essere indagato per falsa testimonianza: la Procura ritiene che i suoi ricordi siano troppo indulgenti nei confronti degli imputati sospettati di una lunga serie di estorsioni. Tra i tanti episodi sintomatici del clima, secondo i pm, c’è una richiesta di 200mila euro presentata dai tifosi alla società: un debito legato a presunte scommesse che avrebbe riguardato il giocatore Omar Milanetto; il debito sarebbe stato del giocatore, ma gli ultrà vanno a battere cassa ai dirigenti del club. Zarbano è stato lo storico uomo di fiducia di Enrico Preziosi, a cui Leopizzi vantava di essere legato da “un patto di sangue”: nel corso del processo è stato prodotto un audio artigianale di un colloquio tra i tifosi e l’ex patron rossoblù, dal quale gli ultrà erano convinti emergessero ammissioni di Preziosi riguardo a presunte combine calcistiche.

A un certo punto qualcosa si rompe nel rapporto tra la società e quel pezzo di tifoseria. Il 17 gennaio 2016 l’allora allenatore Gian Piero Gasperini compie un gesto inaudito per il calcio italiano: dopo le contestazioni seguite a Genoa-Palermo, nella conferenza stampa post-partita attacca in modo frontale i capi ultrà della gradinata Nord, indicandoli per nome, “un’intervista particolarmente significativa e dimostrativa della condizione dell’allora allenatore del Genoa”. Gasperini, contestato dalla tifoseria, sarà costretto ad andare via. Così come alcuni giocatori, come Dario Dainelli, che, ammette oggi Preziosi, “aveva paura”. La tesi dei pm è che in qualche modo i rapporti siano poi stati ricuciti e le estorsioni siano continuate.

La tifoseria genoana, nel 2017, è stato oggetto di attenzioni da parte della Commissione antimafia, che parlò di “potere intimidatorio che condiziona la società”, di metodi “che imitano quelli mafiosi” e “rapporti ambigui, spesso di connivenza e al tempo stesso di soggezione” fra gradinata e dirigenza. Il nome di Leopizzi era già emerso anche in un’altra indagine della squadra mobile, l’operazione Wiseguy, che tracciava una sorta di romanzo criminale in salsa ligure, che collegava vecchi malavitosi come Marietto Rossi, storico leader della “banda degli ergastolani”, e figure vicine alla famiglia Saetta, ritenuta vicina alla camorra. Dalle intercettazioni gli uomini di Rossi parlano dell’“ultrà” come di una persona che si sarebbe messo “a disposizione”. La posizione di Leopizzi, indagato anche qui con Marashi, è stata in questo caso archiviata.

Gli imputati (difesi tra gli altri dagli avvocati Stefano Sambugaro, Riccardo La Monaca, Andrea Vernazza, Enrico Grillo e Giuseppe Sciacchitano) respingono ogni addebito: quello degli ultrà era solo tifo organizzato, non un’associazione a delinquere. Alcuni mesi è andata in scena una mega rissa all’interno della stessa tifoseria genoana, proprio tra membri dell’ex Brigata Speloncia e altri del gruppo via Armenia 5r. Secondo la polizia si tratterebbe di una ridefinizione dei rapporti di forza. Uno dei moventi potrebbe essere politico, visto che la prima formazione si è legata a tifoserie gemellate di estrema destra, mentre l’altra avrebbe una visione più neutra.

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