Undici anni e 10 mesi di carcere Mario Bo, nove anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. È la richiesta del procuratore generale di Caltanissetta, Fabio D’Anna, al termine della seconda giornata dedicata alla lunga requisitoria dell’accusa, iniziata lo scorso 26 marzo, e proseguita nel corso di tutta la giornata di oggi, nel processo “Depistaggio Borsellino”, in cui sono i tre poliziotti sono imputati. “Le indagini conseguenti alla strage di via d’Amelio – ha detto D’Anna – hanno avuto un inquinamento probatorio, siamo dinanzi all’ennesimo capitolo iniziato oltre trent’anni fa e non ancora concluso. Vicende che ancora sono irrisolte e meritano di essere approfondite. Ci sono stati quattro procedimenti, condanne ingiuste e rivisitazioni delle sentenze. Non possiamo esimerci dal dire che a questo inquinamento probatorio ha contribuito anche il comportamento di alcuni magistrati, poco attenti, che non sono stati in grado di cogliere elementi di indici di falsità dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino. C’è stato anche un tradimento degli uomini dello Stato, che non hanno tradito solo il giudice Paolo Borsellino, ma anche i loro colleghi, gli agenti della scorta morti nella strage. Un tradimento dovuto ad un forte interesse, perché sapevano che con il loro comportamento avrebbero sviato le indagini, vuoi per proteggere pezzi dello Stato, vuoi per coprire mafiosi, per questo motivi chiedo la condanna a 11 anni e 10 mesi di carcere Mario Bo, e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo”. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino guidati da Arnaldo La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino, a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. L’aggravante mafiosa resta l’ago della bilancia nel processo di appello, perché se dovesse nuovamente decadere, come già successo in primo grado, le imputazioni andrebbero ancora prescritte.

“Venticinque anni di depistaggi”. “Sia chiaro che i colpevoli non sono solo Bo, Ribaudo, Mattei e il defunto La Barbera, ma dovremmo avere in aula molti più imputati, in base alle risultanze processuali, ci sono vertici che hanno avuto la fortuna di passare indenni da questa vicenda, ci sono soggetti che sono morti”, tuona Maurizio Bonaccorso, sostituto procuratore applicato nel processo di appello. “Si tratta di 25 anni di illeciti gravi e reati, che non si possono giustificare solo con una finalità di carriera di La Barbera, sproporzione evidente se paragonati ai reati commessi. Il progetto criminale coltivato da La Barbera era condiviso o quanto meno conosciuto dagli stretti collaboratori che conducevano le indagini. Abbiamo due anime nella squadra mobile di Palermo, da una parte chi viene buttato fuori o si allontana, e dall’altra chi ha lavorato a stretto contatto con La Barbera”, aggiunge Bonaccorso. “Un’attività di depistaggio con un ruolo fondamentale di La Barbera e i suoi principali collaboratori – aggiunge il pg – Lo scopo di La Barbera di depistare nell’interesse di cosa nostra per evitare che si venissero disvelati i rapporti tra la mafia e apparati dei servizi deviati”.

“La Barbera ponte tra servizi deviati e mafia”. Ruolo cardine nel depistaggio, secondo i pg nisseni, sarebbe quello degli 007 intervenuti fin dall’inizio delle indagini delle stragi, con la presenza di Bruno Contrada chiamato dall’allora procuratore capo nisseno Giovanni Tinebra. “Il Sisde fornisce nel depistaggio il proprio contributo, e veste di mafiosità Scarantino – spiega Maurizio Bonaccorso – La Barbera aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione con il Sisde dal febbraio 1986 sino al 28 marzo 1988, con nome in codice Rutilius”. Il dato più inquietante, più grave, è la circostanza emersa di La Barbera finanziato dal Sisde con fondi in nero – aggiunge Bonaccorso – un dirigente della squadra mobile che prende soldi per le proprie esigenze personali, per stare in albergo e non per pagare confidenti. Un tenore di vita considerevole in relazione alla capacità reddituale di La Barbera”. Il riferimento è all’inchiesta dei magistrati nisseni sulla scomparsa dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, per la quale sono indagate l’ex moglie e una delle figlia di La Barbera, accusate di ricettazione aggravata e favoreggiamento alla mafia. “Ho il rammarico che non è stato possibile fare la discovery integrale degli atti dell’indagine in corso, e mi auguro che non avremo rimpianti – dice Bonaccorso -. Le risultanze probatorie mostrano come La Barbera è stato anello di congiunzione, un ponte tra due mondi, i servizi segreti deviati e cosa nostra, interessati che non venissero accertati i responsabili della strage di capaci e via d’Amelio”.

Sparizione dell’agenda rossa. Altro elemento cardine è riconducibile alla scomparsa di una delle tre agende del giudice. “Il primo aspetto riguarda l’importanza dell’agenda rossa di Borsellino, dove erano annotate considerazioni raccolte dal giudice dopo la strage di Capaci in attesa di essere sentito a Caltanissetta nell’inchiesta – spiega Bonaccorso – il secondo punto è la presenza dell’agenda nella borse del giudice il 19 luglio 1992. Agenda che non verrà ritrovata in casa dei familiari. Terzo aspetto riguarda il fatto che Borsellino non aveva l’agenda in mano quando scende dall’auto, perché guida la macchina, e in una mano aveva la sigaretta e nell’altra l’accendino, aspettando che scendesse la madre”. Infine, Bonaccorso aggiunge: “Non esiste una seconda borsa del giudice, nessun familiare lo racconta. L’agenda non è stata mai ritrovata, non è riconducibile che sia stata cosa nostra a prenderla, perché al momento della strage, con tutta le forze di polizia presenti, era impensabile l’intervento di un mafioso per rubarla. Infine, la borsa ricompare nella stanza di La Barbera a mesi di distanza”. In questa vicenda, la relazione del poliziotto Francesco Magi, scritta cinque mesi dopo la strage, secondo il pg Bonaccorso sarebbe stato il tentativo di La Barbera per “distogliere l’attenzione dalla borsa”, che verrà in seguito riconsegnata alla famiglia, priva dell’agenda. “Se questa agenda è sparita, è perché collegata al contenuto della stessa e ai possibili responsabili della strage, oltre ai killer di cosa nostra”, conclude Bonaccorso.

“Depistaggio per favorire la mafia”. “La sentenza di primo grado è illogica, iniqua e fuorviante”, ha detto in aula il sostituto procuratore generale Gaetano Bono. “Fa parte della storia del nostro paese che il depistaggio sia avvenuto, per favorire la mafia – aggiunge Bono – altrimenti rimarrà la favola giudiziaria che La Barbera abbia perseguito la mera finalità di carriera professionale, e che e i poliziotti abbiano banalmente concorso a questa finalità”. Il pg prosegue: “Gli imputati erano consapevoli che Scarantino inventasse, doveva riferire su quello che astrattamente aveva fatto e saputo, dal contegno di Scarantino di poteva capire che stesse inventando. La calunnia aggravata è la questione ermeneutica di tutto il processo”.

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