Collaboratori di giustizia “indottrinati” dalla squadra mobile di Palermo, guidata da Arnaldo La Barbera, per sviare le indagini sulla morte di Paolo Borsellino, indirizzandole verso false piste investigative. E il “singolare e inquietante” coinvolgimento del Sisde nelle indagini della Procura di Caltanissetta sulle stragi. Sono gli elementi toccati nella lunga requisitoria, iniziata oggi all’aula bunker di Caltanissetta, del sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso, nel processo di appello ‘Depistaggio Borsellino’, in cui sono imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, guidati da La Barbera, sono imputati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero “vestito il pupo”, ovvero istruito i finti pentiti, Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini su via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.

Contrada e la procura di Caltanissetta – “Singolare e inquietante la collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde, nella persona di Bruno Contrada. Un rapporto di collaborazione avviato su iniziativa dell’allora procuratore Giovanni Tinebra – spiega in aula Bonaccorso – Contrada, sentito durante il processo, motivava la collaborazione tra Procura e Sisde, perché la squadra mobile di Caltanissetta non aveva una conoscenza approfondita delle famiglie mafiose di Palermo. Quando, invece, le indagini le conduceva la Squadra mobile di Palermo”. “Cosa ha portato il Sisde rispetto all’accertamento dei fatti sui responsabili nella strage di via D’Amelio? Nulla. Una collaborazione del Sisde vietata dalla legge, che non fornisce un aiuto investigativo, ma è una tessera del mosaico del depistaggio delle stragi”, aggiunge il magistrato, applicato nel processo d’appello insieme ai sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono.

A rafforzare tale sviamento, l’accusa cita le dichiarazioni fornite dall’ex magistrato palermitano Antonino Ingroia. “Riferisce (Ingroia, ndr) che il giorno dopo la strage di via D’Amelio, il 20 luglio 1992, incontrò l’allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra. Durante la veglia con i colleghi, Ignazio De Francisci e Teresa Principato raccontarono a Ingroia delle confidenza che Borsellino gli aveva fatto, ovvero che aveva sentito pochi giorni prima il collaboratore Gaspare Mutolo, che gli aveva fatto il nome di due soggetti collusi: Domenico Signorino (pm di Palermo che si suicidò poco dopo, ndr.) e Bruno Contrada”, prosegue Bonaccorso.“Questa circostanza viene detta da Ingroia a Tinebra il 20 luglio 1992. E nonostante il 20 luglio ci sia questa informazione allarmata, Tinebra prosegue la collaborazione tra la sua Procura e il Sisde”, aggiunge il pg.

“L’accerchiamento a Scarantino” – Il personaggio chiave del depistaggio è il finto collaboratore Scarantino, che secondo Bonaccorso sarebbe stato “accerchiato” dagli uomini di La Barbera, in un lasso di tempo durato due anni, dal momento del suo arresto (26 settembre 1992) fino alla sua collaborazione (giugno 1994). Anni di dichiarazioni, ritrattazioni, pestaggi e isolamento in carcere, con “il jolly che la squadra mobile di Palermo si gioca, ovvero la gelosia nei confronti della moglie”. Per l’accusa, un importante elemento di indottrinamento del finto pentito sono i sopralluoghi di fine giugno 1994 nei posti in cui venne organizzata la strage, e che sono citati nell’annotazione di servizio trovata nei mesi scorsi negli uffici della squadra mobile di Palermo e redatta da Maurizio Zerilli, oggi indagato insieme ad altri tre colleghi per depistaggio dalla procura nissena. “A pensar male si fa peccato, sono convinto che questa relazione di servizio non sarebbe saltata fuori se non ci fosse stata l’indagine sugli altri quattro poliziotti”, spiega Bonaccorso.

“Sopralluoghi per indottrinare Scarantino”- “Le questioni controverse sono due: capire come è avvenuta l’individuazione della carrozzeria di Giuseppe Orofino, perché Scarantino racconta di essere stato portato li dagli agenti ma di non conoscere Orofino. E poi capire le modalità dello svolgimento del sopralluogo – aggiunge Bonaccorso -. Ci sono delle anomalie, delle difformità tra le dichiarazioni rese il 24 giugno 1994 da Scarantino e quello che viene scritto nella relazione”. “Dei sette luoghi segnalati da Scarantino, solo in due posti il collaboratore si reca a fare i sopralluoghi con i poliziotti, e perché gli altri cinque non vengono visionati? Perché Scarantino già li conosceva, che doveva indicare – dice Bonaccorso -. Quindi il sopralluogo non è un atto di polizia giudiziaria per accertare le responsabilità di via d’Amelio, ma è fatto per indottrinare Scarantino, secondo la falsa ricostruzione del depistaggio, dei luoghi in cui avviene l’imbottitura dell’auto con il tritolo. Il 29 giugno infatti, nell’interrogatorio a Caltanissetta, a Scarantino vengono mostrati album fotografici con cinque scatti, tra cui l’autocarrozzeria di Orofino”.

“Costruzione di un collaboratore in laboratorio” – Tra i numerosi argomenti toccati nella prima parte della requisitoria, che sarà completa nella prossima udienza di metà aprile, il sostituto procuratore Bonaccorso parla degli altri due “finti pentitiCandura e Andriotta. “La circostanza che bisogna accertare è la metodologia usata nell’indagine dalla squadra mobile, il punto centrale è se La Barbera si rapporta con Candura in buona fede, cioè convinto che la pista investigativa sia vera, o se invece si accorge da subito della sua estraneità”, dice Bonaccorso. Che poi aggiunge: “Non c’era nessuna buona fede in La Barbera e la sua squadra con Candura, ma la certezza che questo soggetto non centrasse nulla con il furto della 126”. Secondo Bonaccorso “non c’erano prove e indizi” per ritenere Candura e Andriotta partecipi della strage, e che la loro collaborazione, provocata anche con pestaggi durante la detenzione e indottrinamenti, sarebbe la prova “dell’assoluta malafede di La Barbera e dei suoi stretti collaboratori su una pista investigativa falsa”.

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