di Claudia De Martino

Lo scorso 31 marzo si sono tenute le elezioni municipali in 81 province della Turchia, con la selezione di 30 sindaci e oltre 21mila consiglieri, appena un anno dopo la conferma al potere alle elezioni presidenziali e parlamentari del partito Akp (Partito Giustizia e Sviluppo) di Recep Tayyip Erdogan all’interno dell’Alleanza popolare, grazie alla vittoria di margine sull’Alleanza Nazionale guidata dal Partito Repubblicano del Popolo (Chp). Tutti gli osservatori si attendevano un risultato coerente al 2023, che rinsaldasse la tenuta dell’Akp, primo partito nel Paese ormai dal lontano 2001.

Tuttavia, gli esiti delle elezioni municipali sono stati sorprendenti: dopo una campagna elettorale sommessa e poco coinvolgente, da tutti ritenuta scontata nei risultati, e una divisione importante consumatasi nel campo dell’opposizione tra il Partito repubblicano e il partito filocurdo Dem (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia, erede dell’Hdp, Partito democratico del popolo) che hanno rotto l’Alleanza Nazionale correndo disuniti, i partiti di opposizione sono riusciti a strappare all’Akp complessivamente 45 province, tra cui le principali metropoli del Paese. In particolare, la capitale Ankara e la megalopoli Istanbul sono andate al Chp, con la rielezione dei due sindaci uscenti Ekrem İmamoğlu and Mansur Yavaş, entrambi con maggioranze molto nette nei rispettivi consigli municipali.

L’inatteso successo elettorale di İmamoğlu, sindaco di Istanbul, proietta inoltre quest’ultimo a diventare il prossimo oppositore di Erdogan alle presidenziali del 2028: un candidato che si prospetta ben più temibile del vecchio leader dell’Alleanza Nazionale, Kılıçdaroğlu. Un segnale che lascia ben sperare i laici in Turchia, che si sono recati in massa alle urne in quest’ultima tornata, a differenza dei religiosi, che si sono divisi tra due partiti islamisti e che hanno scontato una certa disaffezione verso l’Akp, accusato di eccessivo pragmatismo nei confronti di Israele dal suo rivale islamista, il Nuovo Partito del Benessere (Yrp), non avendo interrotto le relazioni diplomatiche con Gerusalemme nonostante l’accesa retorica pro-Gaza del Presidente e le accorate manifestazioni di piazza pro-Palestina organizzate tutti i venerdì.

A cosa si deve, dunque, questo successo del Partito repubblicano del popolo e delle altre forze di opposizione? Certamente a pesare sulle scelte degli elettori è stata l’altissima inflazione, ormai fuori controllo, che pure essendo già alta nel maggio 2023 non aveva giocato alcun ruolo alle scorse elezioni. Tuttavia, come spiega Ezgi Akin su al-Monitor, è stato successivamente alle elezioni che Erdogan ha deciso di abbandonare le sue politiche populiste e varare una politica economica restrittiva o “ortodossa”, rialzando i tassi d’interesse dall’8.5% al 50% tra il giugno 2023 e il febbraio 2024, rendendo così più difficile l’accesso al denaro e a prestiti in particolare, e lasciando i prezzi, soprattutto del settore alimentare, schizzare del 68%. Un’inflazione che pesa molto su categorie come pensionati e dipendenti pubblici, tradizionali sostenitori dell’Akp.

Tuttavia, anche la riorganizzazione interna al campo dell’opposizione sembra aver pagato: il nuovo leader del Chp, Özgür Özel, esponente dell’ala riformatrice, ha saputo infondere nuova vitalità al suo partito – nominando un “governo ombra” in stile britannico di giovani esponenti politici, tra i quali tante donne, per operare un tentativo di ricambio generazionale, e lanciando appelli per la liberazione di leader filocurdi e attivisti dei diritti umani attualmente in prigione -, tanto da vincere alcune roccaforti dell’Akp come Bursa, Balıkesir, Manisa, Kütahya, Adıyaman, Amasya, Kırıkkale, Kilis and Denizli.

Infine, il nuovo partito filocurdo Dem, percepito come la Sinistra radicale, ha saputo presentare candidature forti come quella della femminista Gulistan Sonuk, che ha vinto in una delle province più conservatrici della Turchia (Batman), ma anche quella di Abdullah Zeydan, accusato di terrorismo in quanto vicino al Pkk, eletto sindaco nella città di Van, all’estremo est della Turchia, la cui vittoria era stata invalidata dalle autorità elettorali locali per essere riconfermata successivamente dall’Alta Commissione Elettorale. In ogni caso, Chp e Dem sono riusciti a canalizzare il voto di donne, giovani e curdi, nonché a capitalizzare sulla declinante affluenza dei ceti medi in Anatolia e nei quartieri conservatori di Istanbul, dettata da una certa “stanchezza” nei confronti del partito al potere da oltre 20 anni e dalla compressione del proprio potere d’acquisto.

In ogni caso, all’indomani delle elezioni, Imamoglu ha dichiarato che in Turchia si sarebbe aperta una “nuova era per la democrazia” e che la vittoria del Chp avrebbe costituito una barriera contro il crescente autoritarismo nel Paese. Parole non vuote, se si considera che la conseguenza più importante della vittoria delle opposizioni sarà rallentare o ostruire del tutto la sistematica riforma costituzionale annunciata da Erdogan, che avrebbe potuto conferirgli la possibilità di un nuovo mandato presidenziale oltre i tre già svolti. Se la vittoria delle opposizioni, quindi, rappresenta decisamente una buona notizia per la democrazia turca, il mondo, e soprattutto i Paesi occidentali, non sono tuttavia corsi a congratularsi con i partiti dell’opposizione, ritenendo che Erdogan sia comunque destinato a rimanere l’ago della bilancia della politica turca per i prossimi quattro anni e che, oltre questa transitoria fiammata dei laici, l’Akp sia destinato a restare al potere anche oltre.

Inoltre, i governi occidentali, confrontati con le guerre a Gaza e in Ucraina, sembrano più preoccupati della stabilità che del rilancio della democrazia del Paese, temendo cinicamente che una Turchia laica possa tornare a bussare alle porte dell’Unione Europea, possa espellere i rifugiati siriani presenti nel numero di oltre 3 milioni sul suo territorio o mostrarsi meno cooperativa sul fronte del contenimento dei flussi migratori. È evidente che il sostegno alla democrazia e ai diritti umani, in periodi di guerra, passi in secondo piano difronte a quelle che sono considerate dall’Ue come priorità esistenziali, tra cui spicca erroneamente il “Patto migrazione e asilo”, ma questo costituisce un altro segnale allarmante della miopia delle attuali classi dirigenti europee, che non ritengono più essenziale al mantenimento della pace e della sicurezza collettiva la diffusione della democrazia e dello stato di diritto nel mondo e, in particolare, nei Paesi vicini.

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