di Marco Pozzi

Il 27 gennaio 2010, durante un incontro all’Australian Open, Novak Djokovic ha un crollo: “Cercai di aprire il torace ma avvertii un senso di costrizione al petto. Invece della racchetta, mi sembra di reggere in mano il martello di Thor. Il mio corpo era a pezzi”. Non è la prima volta che gli capita; cedimenti fisici e mentali che gli impediscono di giocare.

Quella partita per caso è vista in televisione dal dottor Igor Cetojevic, un nutrizionista serbo, il quale capisce che il crollo ha a che vedere col cibo. Tramite amici comuni pochi mesi dopo organizza un incontro con Djokovic, mentre sta partecipando alla Coppa Davis. Igor Cetojevic gli chiede di posare la mano sinistra sullo stomaco e distendere in fuori il braccio destro, su cui esercita una pressione; poi gli chiede di poggiare una fetta di pane sullo stomaco, facendogli compiere lo stesso gesto: la forza esercitata da Djokovic è indubitabilmente minore. Così, nel libro “Il punto vincente”, pubblicato in Italia nel 2016 da Sperling&Kupfer, Novak Djokovic racconta la scoperta dell’intolleranza al glutine, e in seguito ai latticini. Dopo aver cambiato alimentazione a luglio 2011 vince Wimbledon e diventa numero 1 al mondo; dimagrito di cinque chili, “più veloce e più flessibile […] forte e perfettamente concentrato”, in quell’anno conquista dieci titoli, tre tornei del Grande Slam con 43 vittorie consecutive.

Anche Novak Djokovic si è trovato ad affrontare una “disabilità”. Associare un fenomeno come Djokovic alla disabilità può apparire un tantino azzardato. Tuttavia permette di considerare come molti fattori influenzino le nostre azioni e la nostra volontà, fattori non sempre controllabili, che ci creano un limite col quale occorre misurarsi. Col quale non si può non misurarsi. “Quella forza misteriosa che mi prosciugava le forze senza preavviso si era nuovamente abbattuta su di me”; “sentire le gambe di pietra e faticavo a respirare”. Non era sufficiente “aumentare il ritmo di allenamento”, “tutte le mattine e tutti i pomeriggi”; “ogni santo giorno sollevavo pesi, andavo in bicicletta e correvo per ore”; “cominciai a praticare la meditazione e poi lo yoga […] iniziai ad allenarmi in maniera ossessiva, 14 ora al giorno tutti i giorni”.
Il corpo e la mente però non rispondevano.

Corpo e mente sono un’unica cosa, che s’influenzano reciprocamente, in modo indissolubile. Comunemente si pensa che le doti fisiche siano sufficienti a raggiungere livelli sportivi d’eccellenza; senz’altro aiuta, ma l’esperienza di Djokovic dimostra come l’allenamento mentale sia altrettanto importante. È importante per prendere consapevolezza di sé, e gestire il proprio rapporto con l’avversario, con la competizione, col pubblico: in generale col mondo esterno.

Un atleta deve misurarsi anche con infortuni, che d’un tratto potrebbero cambiare per sempre la consapevolezza e la possibilità del proprio corpo. Per chi si dedica tanto a fondo in uno sport, con allenamenti e competizioni ad occupare buona parte della vita, lo sport diventa un’identità. La modifica di un ruolo in quel contesto va a toccare l’identità stessa, che all’essere-umano sovrappone l’essere-atleta. E in questo senso passaggio epocale, potenzialmente traumatico, è il ritiro dall’attività agonistica, con la necessità di ricalibrare tutti i meccanismi esistenziali della persona (tanti racconti si possono ascoltare nel bel podcast “Gulliver – storie di atlete alla ricerca del proprio posto nel mondo”).

Novak Djokovic, come altri grandi campioni, affronta le stesse paure e incertezze di tutti, e un successo così duraturo non è certo frutto del caso o del mero talento innato. Perciò nel libro suggerisce a tutti di curare l’alimentazione e l’equilibrio della mente: “ciascuno di noi è unico, ma la cosa più importante che tutto possiamo fare è metterci in ascolto”, per cogliere i segnali che ci invia; con la mindfulness, “anziché mettere a tacere i pensieri e di trovare la pace interiore, accogliamo i pensieri così come si presentano alla mente”; circondarsi di amici, perché “rappresentano una forza che mi spinge in una direzione positiva”.

Possono sembrare banalità, dette da chi è in cima al mondo ricoperto di soldi. Ricordano però che la stessa attenzione a se stessi è necessaria per ognuno, non soltanto per i grandi atleti al massimo livello di competizione. Nel libro Djokovic analizza e spiega il suo percorso personale, ma sovente aggiunge come tale approccio sia applicabile nella vita quotidiana di ciascuno, per aumentare il proprio benessere nel mondo: “se anche voi riuscirete a introdurre nella vostra vita i cambiamenti che abbiano anche solo la metà dell’effetto che hanno avuto sulla mia, sarete sicuramente molto più felici, e io lo sarò per voi”.

Il rapporto col corpo aiuta a conoscere le proprie abilità e disabilità, e trarne il maggior valore possibile, superando le disabilità e potenziando le abilità. In equilibrio fra limiti e spazio aperto si gioca la possibilità d’espressione di ciascuno, che sia Wimbledon o la riunione in ufficio.

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Sono un padre elicottero ma ora dico basta (o almeno ci provo)

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