In Italia è cosa già vista a risaputa: l’accusato ricco e famoso proclama la propria innocenza, ma non ha nessuna fretta di essere assolto, anche perché rischia di essere condannato; dunque, non vuole andare a processo il più rapidamente possibile per dimostrare la propria estraneità, ma cerca di dilazionare, rinviare, procrastinare il più possibile, utilizzando tutto l’arsenale di strumenti legali a sua disposizione e intasando la magistratura di ricorsi, appelli, eccezioni.

Ovviamente, tutto ciò ha un costo: stuoli di avvocati da pagare per azzeccare il garbuglio giusto che valga un rinvio e, magari, il balenio di una decorrenza dei termini. Essere garantisti è giusto; ma questo è un garantismo in versione di lusso per ricchi.

Negli Usa, dove la giustizia non è sempre giusta, ma di solito è spedita, sta accadendo esattamente la stessa cosa: del resto, è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un povero vada alla Casa Bianca. Ma c’è una variante che è un’aggravante, la sudditanza di giudici al potere politico che li ha nominati. Sull’ex presidente Donald Trump, candidato repubblicano in pectore a Usa 2024, pesano 88 capi d’accusa in quattro processi: due federali, a Washington e in Florida; uno statale, in Georgia; e uno a New York. Lui continua a denunciare una ‘caccia alle streghe’ da parte della magistratura; ma, anche contando su giudici ‘amici’, può riuscire a evitare che i dibattimenti, o almeno alcuni di essi, inizino prima delle elezioni presidenziali del 5 novembre; e, con l’eccezione del caso di New York, è ormai difficile che vadano a sentenza prima del voto.

La stampa Usa mainstream e liberal segnala comportamenti anomali, nei suoi confronti, di giudici di vario livello: da singoli magistrati alla Corte Suprema, dove sei giudici su nove sono conservatori – e tre di questi scelti da Trump quand’era presidente – e tre progressisti. In particolare, fanno molto discutere le scelte di Aileen Cannon, di nomina ‘trumpiana’, che presiede il processo in Florida sui documenti riservati illegalmente portati via dalla Casa Bianca e illegalmente – e malamente – custoditi dall’ex presidente nelle sue residenze. Il Washington Post cita esperti legali, secondo cui le scelte di Cannon sono “molto molto singolari” dal punto di vista del diritto. Risultato: il giudice non ha ancora fissato l’inizio del processo, che sembrava potesse iniziare il 20 maggio, ma che sicuramente slitterà.

In Georgia, la difesa d’uno degli imputati ha tirato fuori storie di lenzuola tra la pm e un suo collaboratore, la cui rilevanza nel caso resta misteriosa. Un giudice ha deciso che il processo può andare avanti, essendosi sciolti fra i due sia il legame sentimentale che quello professionale, ma ha contestualmente ammesso un ricorso contro la sua sentenza. E così il procedimento resta bloccato, mentre la difesa già avanza altre istanze di rinvio o di cassazione.

A Washington, la ‘madre di tutti i processi’, quello sul ruolo dell’allora presidente nell’insurrezione del 6 gennaio 2021 per rovesciare l’esito delle elezioni, attende che la Corte Suprema si pronunci sulla pretesa d’immunità di Trump. E la Corte Suprema se la prende comoda: il 22 aprile ascolterà le parti; forse prima dell’estate darà il suo parere; dopodiché mancheranno più o meno 100 giorni al voto e saranno pochi per fare il processo e arrivare a sentenza. Sempre che la Corte Suprema non avalli la tesi dell’immunità. Alcune decisioni dei giudici supremi, tutte pro Trump, appaiono discutibili o almeno contraddittorie: affermano le prerogative federali su quelle statali, quando si tratta di non escludere Trump dalle liste – una decisione unanime, evidentemente indiscutibile in punta di diritto; ma poi consentono a uno Stato, il Texas, ‘trumpiano’, di prevaricare le leggi federali quando si tratta di migranti.

Resta il processo di New York sul pagamento in nero coi soldi degli elettori per comprare il silenzio di due donne su storie del passato con il magnate durante la campagna elettorale 2016. Lì si doveva cominciare il 25 marzo, ma s’è slittati al 15 aprile per permettere l’esame di nuove carte: sui giudici di New York non c’è ombra di pregiudizi favorevoli a Trump, anzi è piuttosto il contrario. Ed è già uscito il documentario ‘Stormy‘: la pornostar Stephanie Clifford, alias Stormy Daniels, racconta l’incontro nel 2006 con Trump e l’impatto sulla sua vita.

Nella giustizia ordinaria, dunque, tutto fermo al palo di partenza, o quasi. Mentre va avanti la speciosa inchiesta della commissione di sorveglianza della Camera che istruisce l’impeachment contro il presidente Joe Biden: mancano del tutto le prove dell’asserto, ma l’obiettivo è solo quello di mettere in difficoltà il presidente.
E, intanto, Trump vuole ingaggiare come consigliere della sua campagna Paul Manafort, che fu già suo campaign manager nel 2016 e che lui graziò a fine mandato, dopo che era stato condannato per frode fiscale e bancaria nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate. Manafort dovrebbe occuparsi della raccolta di fondi del magnate. L’assunzione di Manafort riaprirebbe il capitolo delle interferenze della Russia in Usa 2016. Manafort aveva condiviso dati della campagna con un suo socio che, secondo l’Fbi, aveva legami con l’intelligence di Mosca.

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