Di fronte a ciò che quel padre vide all’ingresso di quella tenda, non poteva esserci alcuna esperienza pregressa, per quanto forte, a impedire che il grido di orrore uscisse dalla sua gola così potente, così dilaniante, che persino il vento, per un istante, cessò di soffiare, e la foresta parve farsi di pietra, colpita a morte, pure lei, da tutto quel disumano gridare.

Il predatore, di Marco Niro (Bottega Errante Edizioni), è un noir atipico, ben scritto, costruito in modo impeccabile nella costruzione della suspense, che affronta il tema della diversità da una prospettiva inedita e originale. Il romanzo è ambientato a Cimalta, un misero borgo di montagna abitato da poche migliaia di persone. È qui che una notte si compie un terribile fatto di sangue, una strage che metterà quattro uomini, e la comunità che li sostiene o si frappone a essi, sulle tracce del mostro, in questo caso, un orso.

I quattro uomini (il sindaco che sogna di diventare la punta della piramide tra i politici della regione; un cardiochirurgo ambizioso che aspira al posto di primario; un commissario di provincia che vorrebbe diventare questore; un prete che vuole disperatamente ritrovare la fede), stringeranno sempre più il cerchio intorno all’orso, in una caccia implacabile e ricca di colpi di scena, fino a un epilogo affatto scontato, capace di lasciare molti interrogativi al lettore, di aprirgli la mente rispetto alle coordinate della vita e della sopravvivenza.

Il predatore, con il suo ritmo teso, e al contempo capace di rallentare con sequenze descrittive di ampio respiro, mette in luce la difficile relazione tra l’uomo e l’animale, la sete di potere (gustosamente e sconfortantemente bipede), e la fragilità dell’uomo davanti alle grandi prove che la natura gli mette davanti. È una storia di grande dignità selvatica e di bassezze pensanti, di doppiogiochisti e di omuncoli che dichiarano il proprio amore per il territorio in cui sono collocati, ma che fanno di tutto per distruggere le tracce di cultura naturale e sociale che lo caratterizzano, quel territorio.

Il predatore, è un ottimo romanzo, che emerge da un diffuso piattume letterario nazionale. Una lettura appassionante e intelligente.

Lombard scuote la testa, deluso. Si aggrappa allo scaffale e, barcollando, si sfila le scarpe e punta. Poi si tira un po’ su i pantaloni e, gemendo e sospirando, si mette in ginocchio davanti alla scrivania, vi appoggia la fronte, e con la mano destra abbassa leggermente il colletto della camicia scoprendo la pelle davanti a Tomer, che trema come una foglia. Fuori il vento sferza le finestre sibillando. Fa vibrare i vetri. I primi raggi di sole proiettano strisce nel buio. Tomer arma il fucile. Lombard sospira.

Il cannibale, di Tom Hofland (traduzione di Laura Pignatti; Carbonio Editore), con uno stile cinematografico, rapido e visivo, che mi ha ricordato quello di Peter Terrin ne Il guardiano, narra in modo efficace e singolare uno degli aspetti più drammatici e squallidi della vita contemporanea: l’arrivismo. Il responsabile del reparto Vendite e Qualità di un’azienda farmaceutica è costretto, dopo che la società è stata rilevata da un investitore straniero, a convincere i colleghi a dimettersi. In questo micromondo di esterni bucolici e di interni glaciali, dove la parola “esubero” diventa la più importante del vocabolario, Lute chiede l’aiuto di Lombard, cacciatore di teste freelance, che insieme a un inquietante e grintoso cane e di Reiner, un cowboy sui generis armato di fucile, si dà da fare per portare a termine il compito.

Grottesco, ironico, surreale, Il cannibale si insinua nelle precarietà del lavoro e tra le maglie cancerogene del profitto economico a tutti i costi. L’autore olandese è capace di far immergere il lettore in un’atmosfera tesa e straniante, di far riflettere sulla dicotomia personale-professionale e sulle ingiustizie, tollerate, del vivere contemporaneo.

Lo avevo fatto perché la vita dei neri era dura, dove ero cresciuto io. La logica dell’infanzia non si era mai dimostrata sbagliata. Se un uomo portava catene d’oro, qualcuno lo avrebbe colpito in testa. Se aveva un aspetto benestante, le donne lo avrebbero trascinato a letto tirandolo per il pisello per poi colpirlo con una causa di paternità nove mesi dopo. Se era una donna ad avere soldi, l’uomo l’avrebbe picchiata sino a quando lei non ne poteva più.

Betty la nera, di Walter Mosley (traduzione di Anna Maria Cossiga; 21lettere), è uno dei migliori noir che vedono Easy Rawlins protagonista. La storia è ambientata nel 1961, nel pieno della lotta per i diritti civili. Easy è incaricato di trovare Elizabeth Eady, detta Betty la nera, famosa per il suo fascino e per la lista di ex amanti o uomini infatuatosi di lei, letteralmente morti. Inizia un viaggio nei meandri di Los Angeles, tra vendette ataviche, e ricerca di giustizia e morali tollerabili. Betty la nera traccia uno spaccato realistico dell’America dei primi anni Sessanta e dilata la narrazione dei rapporti sociali di quell’epoca, facendo emergere la paranoia kennediana, il razzismo e la lotta per sopravvivere e provare a essere sereni, nonostante lutto e rabbia.

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