Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, in via Rasella nel centro di Roma, un commando dei Gruppi di azione patriottica organizzati dal Partito comunista compie un attentato contro una colonna di 156 soldati nazisti del battaglione Polizeiregiment Bozen. Una carica esplosiva collocata su un carro della spazzatura causa la maggior parte delle vittime; subito dopo alcuni partigiani, piazzati in una via laterale, effettuano un fuoco di sbarramento lanciando bombe a mano che provocano altre uccisioni.

Nell’azione nessun partigiano rimane ferito. Muoiono 33 soldati nazisti e due civili sono uccisi dai tedeschi che indirizzano gli spari verso le finestre dei palazzi.

La rappresaglia è immediata. Le autorità italiane della Rsi cooperano con straordinaria sollecitudine, a cominciare dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, sino al questore di Roma, Pietro Caruso, che con il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler redige la lista di 330 persone da eliminare sulla base, come convenuto in quel momento, di 10 italiani per ogni tedesco caduto, anche se poi le persone uccise alla fine risultano 335.

In tutta fretta gli uomini sono prelevati dal carcere di Regina Coeli, fra questi alcuni esponenti di vertice della Resistenza romana, partigiani del gruppo “Bandiera Rossa”, antifascisti, militari, civili, ebrei, senza partito.

Dopo nemmeno 24 ore, nel pomeriggio del 24 marzo, i prigionieri sono uccisi con un colpo di pistola alla nuca, braccia legate a gruppi di 5, nei cunicoli di roccia che si trovano nella località periferica di Fosse Ardeatine. Per la dimensione della rappresaglia subita, si tratta di una delle azioni più controverse della Resistenza italiana.

Due giorni dopo l’attacco, il rappresentante democristiano della Giunta militare romana, Giuseppe Spataro, disapprova l’attentato in ragione delle conseguenze provocate, proponendo che le azioni della Resistenza siano preventivamente autorizzate dalla Giunta. Una restrizione che bloccherebbe la guerriglia dove spesso le azioni sono figlie del momento. Nella discussione della Giunta romana, la proposta di Spataro viene respinta anche dall’esponente liberale Manlio Brosio.

Il 28 marzo il Comitato centrale di liberazione nazionale dirama un comunicato nel quale approva l’attentato.

L’attacco di via Rasella non è la prima azione della Resistenza: nel centro di Roma si erano verificati diversi agguati mortali. In ogni caso, se il movimento di Resistenza si fosse fermato per la minaccia di più ampie ritorsioni non avrebbe compiuto alcuna operazione militare.

Dal punto di vista strategico, l’attacco di via Rasella è volto a evitare il transito delle truppe naziste per evitare i bombardamenti sulla città, infatti dopo questa azione i nazisti non attraverseranno le aree centrali della capitale. Dal punto di vista emotivo l’attentato di via Rasella contribuisce a infondere fiducia nella lotta alle formazioni partigiane che si stanno ingrandendo nelle montagne, oltre a suscitare una vasta eco in tutta Europa, presentandosi come il più sanguinoso attentato compiuto contro le forze di occupazione e mostrando la volontà degli italiani di lottare contro i nazifascisti. Proprio la visibilità dell’attacco impone ai nazisti la sproporzionata reazione.

E’ priva di fondamento la voce secondo la quale i tedeschi avrebbero rivolto un appello agli attentatori, tramite il quotidiano “Il Messaggero”, affinché si consegnassero. Posto che un partigiano non avrebbe accettato questa intimazione, che equivaleva a riconoscere la legittimità dell’occupante, quell’appello non è mai stato diramato dal giornale che il 25 marzo si limita ad annunciare l’esecuzione dei prigionieri, in un rapporto da 1 a 10 specificando che “quest’ordine è già stato eseguito”. Non è la ricerca dei colpevoli, ma è la rappresaglia il fine dei nazisti.

Sul fronte della Resistenza resta però il peso del contraccolpo: le azioni dei Gap sono state 43 prima di via Rasella e appena 3 dopo l’agguato. L’attività partigiana si sposta dal centro alle borgate diminuendo di intensità. L’arresto e il tradimento del gappista Guglielmo Blasi porta allo scioglimento del nucleo che ha compiuto l’azione.

L’ordine della rappresaglia è stato emesso da Albert Kesselring, comandante supremo delle forze naziste per l’Italia. Processato a Venezia nel 1947 Kesselring viene condannato a morte per crimini di guerra, con specifico riferimento anche all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Dietro pressioni britanniche, la pena è commutata nel carcere a vita, ma nel 1952 il generale nazista torna in libertà. Con ineffabile iattanza dichiara di non avere nulla da rimproverarsi e che, anzi, per il suo operato gli italiani avrebbero dovuto dedicargli un monumento.

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