In un’epoca in cui la guerra sembra tornare a farla da padrona e regimi autoritari si diffondono a spese della democrazia un po’ ovunque, Europa compresa, sarebbe importante tornare a riflettere sulla radice profonda e oscura della sopraffazione e del dominio, di cui l’umanità sembra non riuscire a liberarsi.

In proposito, resta di grande importanza e attualissima la lezione di un gruppo teatrale leggendario, il Living Theatre, fondato nel 1947 a New York da Julian Beck e Judith Malina, entrambi ebrei. In tutta la sua lunga esistenza, il Living Theatre ha portato avanti senza mai deflettere il proprio credo anarchico non violento, anche se gli costò molte “scomuniche” negli anni della contestazione giovanile (fra 1968 e 1977), che al contrario ritenne spesso legittimo il ricorso alla violenza come risposta a quella del Sistema.

Del resto, l’analisi che Beck e Malina facevano del Potere, e della violenza come suo indispensabile strumento, differiva profondamente da quelle della Sinistra marxista, incentrate sostanzialmente sul materialismo e sulla lotta di classe (che per altro essi non disconoscevano). Da sempre in polemica contro l’imperialismo americano e il complesso economico-militare che lo sosteneva (pensiamo a The Brig, 1963), il Living Theatre nel corso degli anni Sessanta cominciò a spostare progressivamente la sua attenzione dai “meccanismi del dominio” ai “meccanismi della sottomissione”. Affermerà più tardi Judith Malina: “Noi anarchici abbiamo sempre detto che è la sottomissione a causare la tirannia e non il contrario. Quello che dobbiamo combattere è la tendenza ad attribuire ad altri la nostra propria sottomissione e la nostra inclinazione ad essere schiavi, invece di scegliere la strada, ben più difficile, della libertà” (in Cristina Valenti, Storia del Living Theatre. Conversazioni con Judith Malina, Titivillus, 2008 [1995], pp. 136-137).

Furono prima un autore come Jean Genet (di cui misero in scena Le Serve, 1965), e poi lo scrittore austriaco ottocentesco Leopold von Sacher-Masoch, a spingere il Living Theatre verso la concezione qui così nitidamente riassunta da Malina. Si tratta di una concezione che nutre già la celebre messa in scena dell’Antigone di Sofocle-Hölderlin e il successivo Paradise Now, fra 1967 e 1968. Ma essa si dispiega completamente negli anni Settanta, con i lavori appartenenti al ciclo “L’eredità di Caino”: Sei atti pubblici, La torre del denaro e, soprattutto, Sette meditazioni sul sadomasochismo politico.

Quattro secoli prima del Living (e tre prima di Sacher-Masoch), l’idea che “è la sottomissione a causare la tirannia e non il contrario” si trova enunciata scandalosamente nello scritto di un giovanissimo poeta e filosofo francese, Etienne de la Boétie, che morirà a soli trentatrè anni nel 1563 fra le braccia dell’amico Montaigne, il quale lo definirà “il più grande uomo del suo tempo”. Qualche frase estratta dal Discorso della servitù volontaria: “Sono infatti i popoli che si lasciano o, piuttosto, si fanno maltrattare, dal momento che, smettendo di servire, sarebbero liberi; è il popolo che si fa servo, che si taglia da solo la gola, che avendo la scelta fra essere servo o essere libero rinuncia all’indipendenza e prende il giogo. […] La libertà è la sola cosa che gli uomini non desiderano affatto, o almeno così sembra, per la semplice ragione che se la desiderassero l’avrebbero. […] Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi. […] Quale sventura ha mai potuto snaturare l’uomo, il solo essere nato libero da servitù, facendogli smarrire il ricordo del suo stato originario e il desiderio di riconquistarlo?” (Etienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Feltrinelli, 2015, pp. 34-41).

Non è difficile capire perché un testo siffatto sia stato sostanzialmente emarginato nel dibattito moderno della teoria politica. Troppo fuori dagli schemi che questa percorre dal Settecento in poi. Troppo imbarazzante per i modi in cui inchioda alle sue responsabilità l’individuo, ciascuno di noi, invece di prendersela soltanto con il Potere e la sua sopraffazione violenta.

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