Per una felice coincidenza lo scorso giovedì 14 marzo, Salomè, “il mito forse più frequentato e significativo nella cultura europea e americana”, come ha scritto Antonio Rostagno nel volume edito da Carocci Intorno a Salome a cura di Sonia Bellavia e Ilaria Lepore, ”dalla fine dell’Ottocento, e in modo dilagante nel primo Novecento”, è stato doppiamente celebrato nella Capitale. In primo luogo, al Cinema Troisi si proiettava la versione restaurata del film Salomè, capolavoro allucinatorio di Carmelo Bene del 1972. La proiezione è stata organizzata in ricordo, a un anno dalla sua scomparsa, di Mario Masini, il direttore della fotografia del film, definito da Bene “L’eroico Masini”, come è intitolato il bel libro a lui dedicato da Ludovico Cantisani patrocinato dall’associazione L’orecchio mancante; non a caso la proiezione è stata presentata, tra gli altri, dallo stesso Cantisani e da Federico Primosig, rappresentante dell’associazione.

Ennio Flaiano scrisse del film di Bene: “Se Oscar Wilde avesse scritto oggi Salomè l’avrebbe fatta senza dubbio così”: in contemporanea alla proiezione al Troisi, mi trovato al Teatro dell’Opera per vedere la Salome di Richard Strauss, ispirata proprio alla celebre opera di Oscar Wilde. Nel libretto di sala, molto ben curato, Sconfinamenti, dedicato all’opera, è presente una serie di contributi molto interessanti, tra cui ricordo: Auscultare la tenebra di Elisabetta Fava, che ricostruisce con passione e perizia filologica la storia del passaggio da Wilde a Strauss; il citato intervento di Rostagno (Salomania: deviazione o mentalità?) sulla moda improvvisa che scaturì dal successo dell’opera teatrale wildiana; un accostamento (che interesserebbe molto a David Lynch) tra la protagonista dell’opera e Norma di Sunset Boulevard a cura di Giuliano Danieli.

Veniamo finalmente alla rappresentazione: per una volta, io che sono spesso critico con le rappresentazioni forzatamente “moderne” ho apprezzato moltissimo la scelta essenziale di Kosky nell’ambientare la scena su uno sfondo nero, proprio al contrario della baroccheggiante mise-en-scène originale wildiana o delle visioni stordenti, quasi da allucinazione mistica di Bene, che tanto piacquero a De Chirico: “Nel mio allestimento ho spogliato il palcoscenico e ho lasciato il buio. C’è un’unica fonte luminosa, un cono di luce che io dirigo come un personaggio: una luna che illumina e nasconde, perché quando siamo immersi nelle tenebre tutto cambia”.

Una scelta che esalta la straordinaria bellezza della poesia di Wilde, sola a riempire la scena nelle vertiginose analogie in cui risuona, in un rovesciamento maledetto, il Cantico dei Cantici (“Come l’ombra di una rosa bianca in uno specchio d’argento”, “La tua bocca è come un nastro scarlatto su una torre d’avorio”): ricordo bene una riflessione di Lorenzo Ceccotti alla prima visione adolescenziale della Salomè di Bene, su come i versi, sensuali e barocchi di Wilde, rivelassero uno stupore per la bellezza simile a quello di San Francesco; è tutto qui, in questo nodo, la tragica parabola del Simbolismo decadente: il cercare, come spiegava Giovanni Casoli ormai trent’anni fa, l’unità creaturale (dall’etimo di “simbolo”) nei sensi e non in un rapporto con l’Assoluto; un tragico equivoco che da Correspondance del sommo Baudelaire arriva fino alle ambizioni filosofiche, confuse benché rese esteticamente in maniera sontuosa, di Lanthimos in Poor Things.

Tutti questi nodi filosofici irrisolti si incarnano in Salomè, interpretata magnificamente sulla scena da Lise Lindstrom, in grado non solo di interpretare la complessa partitura della figura straussiana (la più radicale del genio bavarese, come sottolineato dal sapiente direttore d’orchestra Marc Albrecht), ma di mostrarne i diversi volti in un cangiare schizofrenico: da bimba capricciosa a insaziabile viziosa, disarticolata nella danza come una marionetta posseduta dalla ninfomania, sedotta dall’Interdetto (benché ripugnante alla vista), nella meccanica paradossale e perversa di contaminare la santità selvaggia e furiosa di Jochanaan. Una contraddizione lancinante (la seduzione estetica dell’ascesi come rovescio sensuale e dannato della Filocalia) che agirà come una preghiera rovesciata, una profezia scagliata contro se stesso dall’Oracolo tragico e sublime di Oscar Wilde.

In conclusione, una rappresentazione geniale nella sua semplicità, uno dei momenti più riusciti, nella rappresentazione operistica, degli ultimi anni.

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