Non parlò al rabbino né con nessun’altra autorità dello stupro, e non si sarebbe mai sognata di parlarne a Harry Stone perché tendeva a diventare irrazionalmente geloso, e come un Otello omosessuale si sarebbe convinto che se l’era spassata con un esercito di maschi oltre che con il Turco, il che non era vero.

Potendo li avrei salvati di Leonard Michaels (traduzione a cura di Luca Briasco e Roberto Serrai; Racconti Edizioni), raccoglie tutti i racconti di una delle firme più influenti e originali del panorama letterario statunitense del secondo Novecento. Si tratta di un libro bellissimo, intenso, fatto di storie tese e scarne, di storie intrise di sesso, pettegolezzi, discussioni, amicizia, senso di colpa, rabbia. Una raccolta dove, oltre ai protagonisti umani, emerge, tra le righe, la centralità di New York o, meglio, di come “la Grande Mela” possa influenzare la vita dei suoi abitanti. Forse in Michaels c’è un po’ di Andre Dubus e di Raymond Carver, lo si riscontra nella capacità di rendere limpida ogni narrazione, ma quello che emerge è un piglio originale e vivido, attitudine che già avevo riscontrato in Sylvia, autentico capolavoro dell’autore.

Potendo li avrei salvati è un’opera viscerale con protagonisti ossessionati, loro malgrado, dall’eros e dall’ineluttabilità della vita. Il sesso, la violenza, lo straniamento e la vendetta sono la salvezza per i personaggi di Leonard. Personaggi che vivono la propria vita alla ricerca di qualcosa senza sapere esattamente cosa. Da una studentessa universitaria che viene violentata da uno studente turco e, di conseguenza, abbandonata dal suo fidanzato WASP, a una donna che contratta con un branco di bulli del quartiere per riavere il suo guanto rubato, dagli stravaganti giochi sessuali di un rabbino e della sua giovane moglie, al rinomato matematico Nachman perplesso dalle relazioni umane e innamorato della logica e della bellezza dei numeri.

Un libro indispensabile per chiunque ami le short story e la narrativa popolare di qualità.

Lei continuò a fissarmi negli occhi. Mi strinsi nelle spalle, abbassai lo sguardo. Lei mi strinse in un pugno il lembo anteriore della camicia, come in una morsa. Sussurrò qualcosa. Le dissi: «Come, scusa?». Lei ripeté, in un sussurro, «Scopami». Il ticchettio dell’orologio sembrava un concerto di grilli. I Vlaminck spillavano sangue. Sprofondammo nel tappeto come nelle sabbie mobili.

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