di Carmelo Zaccaria

Governare, si sa, non è uno scherzo. Serve molta abnegazione, energia mentale e capacità seduttiva. Oltre ad un pizzico di sano cinismo, come raccomandato da Machiavelli. Un fisico bestiale aiuta. Il potere produce potere, si autoalimenta in un vortice di eccitamento smisurato, in una tensione emotiva che alterna ferocia a mestizia. Una volta giunti all’incombenza, nello stordimento irresistibile del comando, difficile togliersi di mezzo. Piuttosto rimanerci in perpetuo, se possibile.

Ecco perché non stupisce la richiesta del terzo mandato; più probabile e intuitivo che si debba insistere per il quarto e, forse, per il quinto, qualora si rendesse consono, magari invocando la continuità amministrativa, il completamento della missione, l’apprezzamento degli elettori, la saggezza delle urne. Abdicare non è previsto. Lo fece Carlo V, stufo di dominare sul mondo intero, mica su una regione, e ancora prima di lui si dimise il pragmatico Diocleziano che in carrozza ripiegò sazio e felice verso la sua dimora di campagna. E tanti saluti.

Certo ci vorrebbero altre motivazioni, ambizioni di vita desiderabili, affascinanti e meno scontate, o persino l’indubitabile privilegio di godersi gli affetti, di seguire i propri figli o fare bisbocce con gli amici. Ma se non sei Cincinnato, non se ne parla. L’unicità del proprio ego traboccante, orgoglioso, essenziale, lo proibisce. Ciò che imbroglia è la presunzione di disporre di una serie di abilità speciali, incommensurabili, precluse ad altri esseri umani, la certezza di ritenerli non all’altezza di ricoprire lo stesso mandato, di non possedere quella prestanza fisica e morale senza cui l’esercizio della funzione decade, l’autorità costituita si affloscia, l’incarico perde significato.

Ovvio, nessuno meglio di loro sa comprendere e risolvere i problemi delle persone. Più che una questione di principio prevale il bisogno di esserci, l’adrenalina che sgorga irrefrenabile nel voluttuoso trambusto del presenziare. Una volta estromesso forzatamente dal governo di Generali, l’indomabile Geronzi osservò: nessuno mi può togliere il potere di alzare il telefono. Non è previsto demordere, sarebbe un segnale di debolezza. Una vita senza potere diventa scialba, sconfortante, uno spreco immorale per sé, ma soprattutto per gli altri.

Tuttavia non si capisce come sia possibile che ostacolare il terzo mandato “possa aggravare il distacco dei cittadini dalla politica” o come possa questo limite di due mandati rappresentare una ingiusta “limitazione di scelta da parte degli elettori che mina la democrazia”, quando, invece, proprio l’allungamento della durata dell’incarico alimenterebbe il sospetto che certe cariche non sono dovute tanto alla libera scelta dei cittadini, ma sono il frutto di un sopruso insindacabile di cui la politica non deve mai rendere conto. Sembra acclarato invece che il potere più dura più si fossilizza, perde slancio, tende a individualizzare rapporti, a saldare complicità e, quel che è peggio, a escludere a priori altri contendenti. I cittadini sanno perfettamente che bloccare a due mandati il governo delle regioni e dei comuni, proprio per la loro grande appetibilità, significa evitare il formarsi di consolidati e abnormi centri di potere. Che poi il limite dei due mandati dovrebbe valere per tutte le cariche elettive, comprese quelle dei parlamentari, sarebbe un vulnus da rimuovere e non da comparare.

Un ricambio attivo della classe dirigente è dunque auspicabile per porre un freno all’insorgere di espressioni narcisiste e autoreferenziali ed evitare i rischi derivanti dalla protratta concentrazione di poteri trattenuti per un tempo prolungato nelle stesse mani. E lasciamo stare, per carità di patria, le intonazioni di giubilo dei propri accoliti che valgono esattamente zero, e alimentano forse pretestuosi e astuti fraintendimenti da parte di chi non vuole sentire ragioni per farsi da parte.

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