La stagione della MotoGp che prende il via questo weekend in Qatar – appuntamento venerdì alle 13.40 con le prime prove libere del campionato n° 75 della sua storia – è già la terza senza Valentino Rossi. Ma per quanto passi il tempo (il nove volte campione del mondo ha spento pochi giorni fa la 45° candelina), per il motociclismo ogni nuovo anno sembra essere l’anno zero. Tra campioni ex vincenti, vincenti non campioni, gare sprint, soluzioni aerodinamiche degne della Nasa e voci di vendita alla stessa Liberty media che detiene il circus della Formula 1, la Dorna pare avere perso la trebisonda e da una stagione all’altra si avventura in esplorazioni non sempre di successo, spesso di dubbio gusto.

Si dirà: la nostalgia per il Dottore è dura a morire, serve tempo. Sarà, ma se è vero che Rossi può ancora vantare un milione di follower in più rispetto al campionato stesso (16,2 contro 15,3), la ritrosia degli spettatori a dire addio all’idolo di due generazioni (anche di piloti) pare alimentata proprio dalla rabdomanzia di novità degli organizzatori. Il tema è sempre lo stesso: guadagnare fascino senza trasformarsi in un carrozzone tecno-dipendente come la Formula 1. E se l’anno scorso la novità era l’introduzione delle gare sprint (tanto spettacolo, molte ossa rotte) quest’anno la Dorna di Carmelo Ezpeleta sembra puntare sulla stagione più lunga di sempre (22 gare ridotte a 21 per il forfait dell’Argentina, alle prese con la motosega di Milei) e sulla ricostruzione del mito del pilota-eroe per cercare di obliterare il dominio della tecnica.

Una facile testimonianza si trova nella sequenza di immagini cringe pubblicate sul profilo Instagram ufficiale sotto l’hashtag #undertheskin, con i fusti a torso nudo che mostrano cicatrici sui bicipiti e clavicole sbriciolate. E poi i reel con i piloti intenti a parlare al se stesso bambino, alla mamma, alla fidanzata eccetera eccetera. Un rigurgito di melassa che vorrebbe trasformare forzosamente i piloti in gladiatori gentili laddove la necessità di essere atleti professionisti – qualcuno ricorda l’ultimo Rossi quando diceva che le moto vanno troppo forte? Da allora i tempi sul giro si sono abbassati di un altro secondo e mezzo almeno – ha chiuso le porte al vizio, all’eccentricità, al talento naturale. Cioè al bello dello sport, sacrificato – il pippone si avvia a conclusione – sull’altare dell’eccesso tecnologico di cui più di tutti la Ducati ha saputo avvantaggiarsi, anche grazie alle otto moto in pista.

Già, la Ducati: da Borgo Panigale è obbligatorio partire per parlare finalmente di sport. Il favorito, lo dicono tutti i piloti, è sempre Pecco Bagnaia: due mondiali in fila, forte, fortissimo, razionale. Piemontese adottato dalla Romagna dei motori, il campione del mondo in carica vince tanto senza riuscire a scaldare il cuore: troppo sabaudo per uno sport che vive di groppi in gola. Il suo rivale e alter ego è Jorge Martin cui viene tributata di norma una cazzimma superiore ma anche modi fumantini che gli sono costati botti maldestri nei momenti che contano. Eppure il nome su cui tutti puntano – su cui è necessario puntare – è quello di Marc Marquez. Dopo tre stagioni di merda (esiste un altro modo per dirlo?), l’alfiere Honda ha scelto di andare in Gresini pur di guidare una Ducati, per giunta della stagione passata. In molti si chiedono se, superata la soglia dei trenta, Marquez sia ancora il cannibale che ha anticipato la decadenza di Rossi o se sia arrivato anche il suo momento di passare lo scettro, pur in assenza di eredi legittimi. Il problema è che oltre ai tre nominati, sono altri 5 i piloti Ducati – Alex Marquez, Bastianini, Diggia, Bezzecchi e forse anche Morbidelli – che se la possono giocare sul filo dei millesimi. E non perché siano i più forti: in uno sport di soli esseri umani finirebbe ogni domenica a sportellate, sorpassi e controsorpassi. Nella MotoGp moderna, invece, si cade quasi sempre alla prima curva, mentre sorpassi e controsorpassi sono diventati una rarità. Sul filo dei 360 km/h vince – salvo rare e meravigliose occasioni – chi, a parità di condizioni, sbaglia meno.

Fuori dal monomarca Ducati, ammesso che esista uno spazio, i duellanti sono gli stessi dello scorso anno: Aprilia e Ktm. La prima, ex cenerentola della motoGp, ha avviato negli ultimi anni una maturazione che ancora sembra raccogliere meno di quanto semina. I critici più accaniti danno la colpa dei risultati altalenanti a Espargarò e Vinales, piloti veloci ma non vincenti, continui ma non sempre battaglieri e via dicendo. Ma la verità è che Noale ha costruito una moto che fa tanta strada in curva, ma a cui manca qualcosa in accelerazione e in frenata. Una iattura nelle spigolose piste moderne. Stesso dicasi per Ktm al cui confronto i veneti sembrano artigiani di bottega: gli austriaci non badano a spese pur di inventare ogni giorno nuove diavolerie. Tra telai in carbonio e millemila carene da sperimentare, l’esempio più inguardabile resta il biplano piazzato sulla coda della Rc16 di Miller e Binder. Eppure dei due “ufficiali” quest’anno potrebbe anche non accorgersi nessuno, perché se c’è un nome cui la motoGp spera di affidarsi, beh, è quello di Pedro Acosta con la sua GasGas (che di Ktm è il team satellite, ma gode degli stessi materiali). Rookie maravilla, El Tiburon o come diavolo lo chiameranno nel 2024, Acosta è il classico predestinato alla Marquez. Le ossa che doveva rompersi se le è già rotte tutte ed è ancora lì: giovane, fortissimo e finanche antipatico. Proprio come Marquez. Caratteristica che, tra i gladiatori gentili delle due ruote, è un presupposto vincente per diventare campioni e restarlo a lungo.

Meritano una notazione anche Yamaha e Honda. Le due case giapponesi cercheranno di riemergere dal guano in cui sono affogate anche grazie al regime di concessioni creato ad hoc per spingerle a tornare competitive (ed evitare che se ne vadano dal circus come Suzuki). Ma le somiglianze finiscono qui. Yamaha può contare su due piloti di primo piano come Quartararo e Rins, ma difetta ormai da anni di evoluzioni significative sui risultati. La M1, vista in mezzo alle altre, sembra una moto di un’altra epoca. E infatti è bellissima, almeno quando non è inzeppata di appendici aerodinamiche posticce. Honda, al contrario, rimasta orfana di Marquez, ha fatto persino fatica a trovare un pilota di punta. Alla fine la sella accanto a Mir, che l’anno scorso si è rotto millemila volte per colpa di una moto imbizzarrita, l’ha presa Luca Marini: vedremo quanto durerà l’entusiasmo di essere in un team ufficiale se la sua Honda (brutta, tozza, sgraziata e soprattutto lenta, fino ad oggi) prenderà in stagione un secondo al giro come visto nei test.

E a proposito di moto brutte e moto belle: forse Dorna dovrebbe valutare di riavvicinare motoGp e Superbike, che pure possiede: la sorella minore, basata su mezzi immatricolabili (avendo 40 o 50mila euro, ovviamente) e senza diavolerie eccessive, ha fatto vedere fulmini e saette nel primo appuntamento a Phillip Island. Se non fosse maltrattata dalle televisioni (tecnicamente, produttivamente e anche narrativamente) sarebbe un grande spettacolo. Alla fine gli appassionati quando entrano in una concessionaria lo fanno per guidare le moto di Iannone, Rea, Ratgatlioglu e della neostella Bulega. Chissà. Intanto l’appuntamento con la MotoGp dei prototipi spaziali è venerdì con le prime prove. Sabato la sprint, domenica la gara. Che vinca il cx migliore.

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