Cinema

La sala dei professori, il thriller tedesco sottilmente paranoico è candidato all’Oscar 2024

di Davide Turrini

“A una tesi serve sempre una dimostrazione”. Altrimenti siamo nel campo delle ipotesi, delle congetture, delle accuse infondate. E quante ce ne sono di supposizioni prive di oggettivo fondamento tra le pieghe del thriller sottilmente paranoico, nonché nel levigato spazio scolastico a centro della messa in scena in La sala dei professori. Il film scritto e diretto dal quarantenne berlinese Ilker Catak, già in nomination tra i cinque titoli che si contendono l’Oscar 2024 come Miglior film straniero, è un’opera sottilmente tesa e spiazzante che oscilla tra il racconto morale e una perigliosa detection.

All’interno delle aule, degli uffici, dei corridoi e della palestra di un gymnasium tedesco (nove anni di istruzione filati) si consuma l’ansiogena e vanamente solerte ricerca di un ladro che ha rubato soldi ad insegnanti e personale. La giovanissima professoressa Nowak (Leonie Benesch, la Eva de Il nastro bianco di Haneke), una di quelle figure razionali matematiche che echeggiano certezze modello Decalogo 1 di Kieslowski, è il vettore osservativo, poi reattivo, infine vittima, di un incontrollabile e sobillante groviglio di tentativi di ritrovamento del colpevole. Se la perquisizione estemporanea di docenti maschi tra gli alunni undici-dodicenni della Nowak, qui contrariata per l’abuso di potere dell’autorità, finisce sul binario morto di un’accusa che pare supportata da pregiudizi razziali, è la Nowak stessa nel suo indefesso candore auto incensante di ordine e disciplina a combinare il guaio peggiore: convinta di essere nel giusto fa partire la videocamera del suo portatile in sala professori dopo aver lasciato traccia del suo portafoglio sbucare dalla giacca.

Nell’inquadratura fissa del video si scorge poi per alcuni istanti la manica di una blusa bianca con stelline arancioni sovrapporsi alla giacca e nulla più. Ma dopo aver verificato che mancano soldi dal portafoglio Nowak perlustra subito mezza scuola e rintraccia nella gentile segretaria Bohm la ladra in questione in quanto indossa la blusa incriminata. La successiva formalizzazione dell’accusa davanti alla preside e ai colleghi con indignazione e fuga della Bohm; il contraccolpo psicologico su Oskar (Leonard Stettnisch), il figlio dell’accusata, il più brillante e “matematico” alunno della Nowak che diventa scheggia impazzita in difesa istintiva della madre; infine il caos tra gli alunni non più controllabili con quel battimani inquietante usato dalla prof per stabilire calma in classe, gonfiano la tensione generale dell’istituto e allontanano paradossalmente sempre più la soluzione del caso.

Ciliegina sulla torta: la Nowak finisce intervistata sul giornalino degli studenti (ce ne sono anche di quasi maggiorenni e piuttosto iene nei gymnasium) creando ulteriore scompiglio e scandalo sia tra i colleghi che tra i ragazzi. Lo spettro interpretativo rispetto a La sala professori si fa naturalmente ampio, anche perché Catak non fa nulla per circoscrivere le pregiudiziali di fronte alla colpevolezza del furto (razziali, di classe, di genere). Semmai è nello scricchiolio tra presunta oggettività razionale dell’autorità e verità oggettiva dei fatti, tra fiducia calda nell’umano e fiducia fredda nelle procedure formali, che La sala professori si colloca ritmicamente inquieto e soverchiante (più montaggio che bordone musicale), realistico squarcio su un sistema istituzionale in tilt, riflessione spigolosa su ciò che il cinema costringe all’angolo per la mancanza di dettagli (e colpe) visibili. Forse qualche rallentato rilancio di scrittura nella parte centrale e nel sottofinale, tutto sbilanciato sulla fiducia che mezzi busti e primi piani della protagonista possano risolvere ogni momento di stanca della scrittura, può fare difetto. Anche se nel rapporto spesso silenzioso e infittito degli sguardi tra la Nowak e Oskar si cela una sottotrama fatalmente di primaria importanza. Con un cubo di Rubik che torna protagonista dopo decenni di tecnologie avanzate.

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