Sono uno zoologo-ecologo e non un politologo ma, da ricercatore, ho capito qualcosa di politiche europee interagendo con la Commissione Europea, fornendole pareri attraverso bandi progettuali o a seguito di consultazione diretta. I bandi di Horizon 2020, ad esempio, mettevano a disposizione fondi per ottenere risposte, da parte della comunità scientifica, a specifiche domande.

Ne ho vinto uno e ho coordinato un progetto, finanziato dalle DG (i Ministeri della Commissione) Ambiente, Energia, e Ricerca e Innovazione per rispondere alla domanda: come creare reti di Aree Marine Protette e impianti eolici d’alto mare in Mediterraneo e in Mar Nero? In base alle risposte, le DG delineano le loro politiche.

Ho anche fatto parte dell’European Marine Board, del Network Europeo di Eccellenza su Biodiversità Marina e Funzionamento degli Ecosistemi e dell’European Academies Science Advisory Council per fornire pareri alla Commissione su varie necessità di ricerca. Ho scritto documenti di indirizzo, assieme ad altri colleghi, sulla sostenibilità marina e sulla Mission Healthy Oceans, Seas, Coastal and Inland Waters. A seguito di questi contributi ho partecipato a audizioni presso il Parlamento Europeo. Ho anche coordinato progetti transfrontalieri gestiti dalle Regioni e finanziati con fondi europei.

Riassumendo: i Ministeri della Commissione Europea, sentita la comunità scientifica, identificano problemi, li istruiscono con chiamate progettuali e, in base alle risposte, delineano politiche di intervento e mettono a disposizione finanziamenti ai singoli stati, che li usano per raggiungere gli obiettivi decisi dalla Commissione. I nostri politici europei dovrebbero fare gli interessi dell’Italia e direzionare quante più risorse verso il paese, promuovendo la comunità scientifica nazionale, in modo che indirizzi le decisioni della Commissione. Se queste azioni hanno successo, arrivano i fondi, ma sono i politici nazionali, in Parlamento e nelle Regioni, a gestirli.

L’elettorato “vede” l’operato dei politici nazionali, che distribuiscono i fondi, e “vede poco” il ruolo dei politici europei. Si dice che siano i tecnocrati di Bruxelles a prendere le decisioni: non è vero, le prendono i politici. I tecnocrati attuano quel che decidono i politici eletti a Bruxelles nei singoli paesi. Quelli che lavorano male… danno la colpa ai tecnocrati.

I politici italiani vivono il Parlamento europeo come una sistemazione di ripiego, vista la scarsa visibilità ai fini elettorali: sono demotivati e spesso impreparati perché non conoscono l’inglese, la lingua in cui si negozia qualunque cosa al di fuori dei discorsi formali.

Il raccordo tra i politici di Bruxelles con quelli di Roma e delle Regioni è praticamente inesistente: non esiste un’armonia tra l’ottenimento dei fondi europei a Bruxelles e il loro utilizzo in Italia. Non esiste una strategia politica, ma solo una serie di tattiche spesso scollegate o, addirittura, contrapposte. Mi chiedo: gli elettori lo sanno? Cosa chiedono ai politici che mandano in Europa?

Durante le conferenze Euroceans la comunità scientifica europea che studia il mare si confronta con i politici europei e nazionali. A una è intervenuto un politico che ora ricopre incarichi nazionali di altissima responsabilità: è arrivato, ha letto il suo intervento in un inglese stentato e, prima di parlare, ha detto al presidente della sessione che non avrebbe accettato domande. Finito il discorsetto, se n’è andato. Gli altri politici sono rimasti, e hanno discusso tra loro e con la comunità scientifica europea in campo marino. Il tutto si svolge in inglese, senza interpreti.

E quindi: un requisito necessario dei politici europei è che sappiano l’inglese come Giorgia Meloni, che padroneggia almeno tre lingue, a differenza di moltissimi politici di quasi tutti i partiti. L’inglese, però, non basta: i nostri rappresentanti in Europa dovrebbero fare gli interessi dell’Italia e non del loro partito: è di vitale importanza che i fondi arrivino. Saranno poi i politici nazionali a spenderli per perseguire politiche coerenti con la loro impostazione. Da noi spesso non li sanno spendere, oppure li spendono per favorire il loro elettorato di riferimento. L’importanza della politica europea è stata capita dai politici di molti paesi, ma non da quelli italiani. E temo che non lo abbiano capito neppure gli italiani che li scelgono. Elettori che “non sanno” scelgono politici che “non sanno”.

Alle Europee, quindi, cercate di capire se chi si candida ha capito il meccanismo, e se sa parlare inglese. Inutile che abbia capito se non lo sa esprimere, ed è inutile che si sappia esprimere se non ha capito. Le due condizioni sono necessarie, anche se non sufficienti: se però non sono soddisfatte i politici eletti non aiuteranno il paese, anche se i loro “ideali” corrispondono ai vostri.

Eleggete politici locali e regionali che sappiano utilizzare i fondi europei. Questi non necessariamente devono conoscere l’inglese, dovendosi confrontare con i nostri rappresentanti in Europa che, invece, lo devono conoscere. Avrei una proposta provocatoria: ai fini delle elezioni europee si organizzino confronti elettorali e conferenze stampa in inglese, con sottotitoli in italiano, anche solo per apprezzare o meno la fluidità degli eloqui, indipendentemente da quel che si dice, e per capire se i politici capiscono le domande. Nel pubblico metterei il campione mondiale di pernacchie, e un pernacchiometro, a vantaggio di chi, tra gli spettatori, non sa l’inglese.

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