Per ragioni di lavoro mi è accaduto spesso di filmare dei kalashnikov: in Medio Oriente, in Africa, nel Caucaso, nei Balcani. Ma ce n’è uno che non riesco a dimenticare : ridotto a un rottame e mezzo fuso dalle bombe era appeso a Beyrut, nel 1986, su una parete della sede del Partito Comunista Libanese. Ricordava ai rari visitatori che quasi tutti i membri del partito erano caduti combattendo l’invasione israeliana dell’82.

Mi è tornato in mente leggendo Kalashnikov, l’ultimo libro di Domenico Quirico. Inviato de La Stampa, Quirico ha raccontato quasi tutti i conflitti del nostro tempo collezionando una serie infinita di premi giornalistici e di viaggi all’inferno. Kalashnikov li ripercorre usando come chiave di lettura l’arma che ha globalizzato la guerra, che l’ha resa “portatile” accompagnando le sue agghiaccianti mutazioni da guerra di liberazione a guerra di sterminio. Sino al massacro del 7 ottobre. Il pogrom inizia proprio con la “soggettiva” di un kalashnikov registrata dalla bodycam di un miliziano di Hamas che, in moto, corre urlando di gioia verso un rave party. Verrà trasformato in un mattatoio, scrive Quirico, anche perché i giovani che ballavano erano cresciuti più come Europei che come Israeliani, cioè avevano rimosso la guerra e, a differenza dei loro padri, erano andati alla festa, a due km da Hamas, senza portarsi il mitra.

Questa “rimozione pacifista” ha prodotto la scena successiva che filmata da una camera di sicurezza ricorda le esecuzioni di Babij Jar (1): un miliziano insegue due ragazze, la prima viene falciata mentre la seconda, bloccata da un terrapieno, si inginocchia e chiede pietà. Il soldato di Dio si ferma, con tutta calma ricarica, prende la mira e la uccide.

“La Palestina e il Vicino Oriente – scrive Quirico – sono terra di civiltà scomparse che hanno lasciato sepolte illustrazioni concentrate, grandiose e impressionanti di sé, un tessuto fitto di segni evocatori che si distende ovunque. Posso immaginare che tra un secolo i tunnel di Hamas, il labirinto di cemento edificato dei guerrieri di Dio, qualunque sia l’esito di questa lotta infinita risvegliando i palestinesi, diventerà un’altra sezione di questo catacombale mondo occulto”.

Partendo dalla storia dell’arma più diffusa e dalla biografia del suo inventore, il lavoratore-soldato Michail Kalashnikov, Quirico si muove come un rabdomante, cerca le sorgenti sotterranee della Storia, oscillando continuamente tra passato e presente specie quando il Passato imprigiona il Futuro: “Israeliani e palestinesi – scrive – a ogni cruento capitolo, inalberano le rispettive ragioni ‘storiche’ discendendo fino alla Bibbia e a Saladino e terribili memoria impastate di sangue. Per scavalcarle in una reciproca comprensione bisognerebbe imporre la rigida condizione che venne data a Orfeo per riportare in vita Euridice: non voltarti altrimenti Euridice svanirà per sempre. Come Orfeo israeliani e palestinesi continuano ostinatamente a voltarsi indietro”.

È questa lettura diacronica che gli consente di vedere, dietro le strategie asimmetriche dei droni e degli hacker, la mutazione mostruosa prodotta dalla guerra in Ucraina: il ritorno a Verdun, alle mattanze industriali, lente e inesorabili della prima guerra mondiale.

“Aveva ragione davvero Clausewitz – scrive – quando ci invitava a non dimenticare che l’unico animale cui la guerra assomiglia è il camaleonte. In Ucraina si arruolano i sessantenni, in Russia si raschiano le prigioni… Quando l’Ucraina sarà senza truppe bisognerà mandare i nostri ragazzi a sostituirli se non si vuole lasciare il campo alle infinite risorse umane di Putin. Le perdite mostruose? Oggi, come nel 1915, basta non rivelarle. Gli uomini sono niente. Un’intera gioventù russa e Ucraina aspirata, spazzata via. Le cifre degli obitori e dei cimiteri sono l’unico dato che restituisce il senso vero della guerra. Bisogna tornare ai massacri ad alta intensità del secolo scorso…Pare che la guerra sia una forza cieca della natura che non si può né comprendere né controllare e di cui non si può predire lo svolgimento… Si cercano dopo due anni dottrine nuove che scuotano questa orribile immobilità del massacro ma chi può assicurare che l’istinto di conservazione anche stavolta eviterà per sempre le catastrofi atomiche?”.

Nel suoi studi sulle Radici storiche dei racconti di fate Propp parla degli “oggetti magici” con cui l’Eroe della favola sconfigge il Drago; bene, il kalashnikov nel libro di Quirico è interpretato a tutti gli effetti come un oggetto magico perché è la cristallizzazione del Potere. Theodor Adorno scriveva che la forza è la capacità di trasformare un uomo in un cadavere. Il Kalashnikov è l’oggetto più popolare più diffuso (più “sostenibile” diremmo oggi) che dà a chiunque un potere di vita di morte. E proprio per questo lo contamina…

“Se la mia arma è stata usata per opprimere i popoli – confessa Michail Kalashnikov alla fine dell’autobiografia immaginaria tracciata da Quirico – io non ne ho colpa. Anche volendo non avrei potuto salvare le vite dei giusti che degli ingiusti. Ho seguito il mio destino si potrebbe dire. Adesso quell’ invenzione che serviva per difendere la mia patria è diventata l’arma preferita dei terroristi dei banditi. Posso di nuovo far finta di niente? “

(1) Babij Jar è il luogo in cui furono uccisi dal 29 e il 30 settembre 1941, 33 771 ebrei di Kiev. Le immagini più scioccanti sono quelle delle esecuzioni delle donne.

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