di Antonio Deiara

Ci punivano, a scuola, quando ci scappava la frase in lingua sarda. Anzi, secondo il maestro delle elementari intimorito dalle “veline” che arrivavano da Roma, quando ci permettevamo di parlare “in dialetto”. Siamo cresciuti così, noi sardi figli della “generazione della lingua negata” o della “lingua proibita”. Ma siamo stati fortunati: nonostante il disprezzo di non pochi insegnanti “continentali” calati sulle scuole della Sardegna negli Anni Settanta, abbiamo studiato, conseguito lauree e diplomi del Vecchio Ordinamento ottenendo, a partire dagli Anni Ottanta, cattedre alle medie o superiori, nei Conservatori di Musica o all’Accademia dell’isola. Il bilinguismo, affermano gli esperti, ha ricadute positive.

Chi appartiene alla generazione della lingua proibita ha subito una forma di violenza sottile e poco appariscente: è stato costretto a rinnegare in pubblico la lingua materna, il sardo, e a pensare e a parlare in italiano. Il “dialetto”, cioè la lingua sarda, era grezzo, brutto, quasi animalesco, incommensurabilmente inferiore alla lingua di Dante e Manzoni. Le giovani donne e i giovani uomini che dalla Sardegna si spostavano sul “continente” per qualche giorno o settimana, tornavano in paese o in città con l’inflessione romanesca o milanese o fiorentina o romagnola acquisita a tempo di record perché, si direbbe oggi, “faceva figo”.

La nuova “calata” sulle scuole dell’isola di ben 170 docenti non sardi, avvenuta la scorsa estate, mi ha colpito profondamente, riportando in superficie ricordi della vecchia “calata” che ancora sanno di sale… Quella sardo-catalana è la minoranza linguistica più numerosa d’Italia, oltre un milione e seicentomila cittadine e cittadini, eppure viene privata dei diritti riconosciuti ad altre minoranze dalla normativa vigente. Una classe politica inadeguata, a Roma, ha deciso di non considerarci degni di tutela, in barba all’art. 6 della Costituzione e all’art. 2 della Legge 482/99; una classe politica ignava, a Cagliari, si è arresa anziché affrontare una battaglia politico-giudiziaria a difesa dei diritti non negoziabili delle alunne e degli alunni, delle maestre e dei professori della Sardegna. Mi hanno fatto sorridere alcuni commenti di colleghe e colleghi del “Continente” (come chiamiamo lo “Stivale”, fin da piccoli): non siamo noi docenti sardi a dover dimostrare di saper parlare la lingua sarda e di conoscere la cultura, la letteratura, la storia, l’arte e la musica, etc. della nostra Isola. Come diceva il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a proposito degli alamari cuciti sulla pelle, noi la cultura dei Nuraghi e dei Giganti di Mont’e Prama, i versi di Bonaventura Licheri e i canti di Maria Teresa Cau li abbiamo scolpiti nella nostra mente e nel nostro cuore.

Esiste, in verità, anche una sparuta minoranza di “autocolonialisti” che affidano il nostro futuro alla “benevolenza” dei non sardi. L’inno ufficiale della Regione Autonoma della Sardegna, il “Procurade ‘e moderare” di Francesco Ignazio Mannu di Ozieri, testo coevo alla “Marsigliese” rivoluzionaria e linea melodica dei “Gosos” religiosi, ce lo ricorda ogni giorno: “Custos tirannos minores / Est prezisu humiliare”!

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