La sede legale resterà in Italia e il cuore produttivo a Sarroch. Il nuovo corso della Saras, raffineria che dà lavoro a 1.200 dipendenti diretti e altri 2mila (fino a 4 mila, a seconda dei periodi) indiretti, sarà all’insegna della continuità anche ora che è passata dalla famiglia Moratti all’olandese Vitol. Così è stato comunicato ai sindacati nel corso dell’incontro che Massimo Moratti, il figlio Giovanni e Russel Hardy, Ceo di Vitol, hanno tenuto a Sarroch. Il primo a distanza di 24 ore dall’annuncio del passaggio del 35 per cento delle azioni alla multinazionale olandese che, concretamente, dovrebbe subentrare il prossimo autunno.

I timori per l’ex impero dei Moratti
Rassicurazioni che, tuttavia, non bastano a tranquillizzare i rappresentanti dei lavoratori. “Il nostro auspicio è che la Vitol mantenga da subito gli impegni presi con le organizzazioni sindacali, i lavoratori e il territorio, scongiurando il pericolo di vuoti gestionali che creerebbero tensioni pericolose per la raffineria” hanno detto i segretari territoriali Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil all’indomani dell’incontro con il presidente Massimo Moratti e il Ceo di Vitol Russel Hardy. “Noi, come organizzazioni sindacali – hanno aggiunto Giampiero Manca, Marco Nappi e Pierluigi Loi – continueremo a fare tutto il possibile per sostenere qualunque iniziativa che produca benefici economici ai lavoratori diretti, a quelli delle imprese d’appalto, a tutto il territorio”. Il colosso di Rotterdam è tra i maggiori trader di materie prime e petrolio. Presente in maniera importante in Australia, Europa e Medio Oriente, ha un fatturato di oltre 500 miliardi di dollari. Un gruppo solido, certo. “Ma metterci nelle mani di una multinazionale desta anche una certa preoccupazione, visto che in Sardegna ci siamo trovati spesso di fronte a brutte esperienze”, ha aggiunto Nappi. Il che destabilizza un po’ i lavoratori: “Ci sembra di uscire dalla comfort zone, anche perché Saras sta andando bene, lo ha ricordato lo stesso Moratti, e lo sappiamo anche noi”. La Saras, con una capacità di lavorazione pari a 15 milioni di tonnellate annue, è una delle più grandi raffinerie del Mediterraneo e di Europa. Non tutto il panorama industriale sardo è come la Saras. In particolare nel Sulcis Iglesiente, polo dei metalli non ferrosi, da anni si fanno i conti con cassa integrazione, procedure per la riapertura, promesse e proteste.

I russi di Eurallumina
Eurallumina, primo anello della filiera dell’alluminio controllata dalla russa Rusal, nel 2009 ha fermato gli impianti della raffineria che trasforma la bauxite in allumina (la materia prima da cui si ricava l’alluminio primario) per via degli alti costi dell’olio combustibile, carburante utilizzato per la produzione di vapore e per far andare avanti gli impianti. Nel corso degli anni l’azienda ha presentato una serie di progetti per riavviare gli impianti. Il primo fu quello per la costruzione di una centrale a carbone per la cogenerazione del vapore. Progetto poi accantonato per fare spazio al vapordotto che doveva collegare la fabbrica con la vicina centrale elettrica. Poi è stata la volta della gasiera, da ormeggiare nel porto di Portovesme. Accantonato anche quel progetto, ora si pensa al collegamento con la dorsale e i rigassificatori. Attualmente i lavoratori hanno ottenuto la cassa integrazione per un altro anno. Per portare avanti il piano da 300 milioni di euro deve essere però firmato l’addendum al memorandum, indispensabile per far partire gli interventi. La firma slitta di mese in mese. Ogni anno, per garantire il pagamento degli stipendi e integrazione, l’Eurallumina spende circa 20 milioni di euro.

Il caso di Sider Alloys
C’è poi la Sider Alloys, azienda italo-svizzera che ha rilevato alcuni anni fa lo stabilimento di Portovesme (che produce alluminio primario sia per via elettrolitica, il cosiddetto primario, sia per fusione) dall’Alcoa. Attualmente il piano di rilancio ha visto completati solo gli interventi per la sistemazione della fonderia, ma non quello dell’elettrolisi. Lunedì si è svolta un’assemblea da cui è partito un appello al governo affinché sia affrontata nuovamente la vicenda relativa al rilancio. L’esecutivo, attraverso Invitalia, partecipa con il 20 per cento, mentre il 5 è in capo ai lavoratori. In queste ore si fa strada l’ipotesi della cassa integrazione dopo un confronto tra azienda e sindacati.

La Portovesme Srl
C’è poi il caso della Glencore, che in Sardegna opera con la controllata Portovesme Srl negli stabilimenti di Portovesme e San Gavino dove si producono piombo, zinco, oro, argento, rame e acido solforico. L’azienda, a causa degli alti costi dell’energia, l’anno scorso ha fermato la linea piombo e ridotto al minimo quella dello zinco, attivando la cassa integrazione. Nel frattempo ha presentato due progetti per la costruzione di un impianto pilota per la produzione del litio da destinare alle batterie. Ma a causa delle lungaggini burocratiche ha deciso di spostare il progetto pilota (gli investimenti erano di 5 milioni di euro) all’estero. Resta adesso in piedi il progetto per i componenti delle batterie, in collaborazione con Recycle per cui si stima un investimento di oltre mezzo miliardo di euro. Il progetto è in fase di elaborazione, seppure anche in questo caso pesino i tempi troppo dilatati della burocrazia.

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