Vogliamo richiamare, in particolare, l’impegno ad esprimere ed a rappresentare le proprie opinioni sul rinnovo della Presidenza nell’unica sede statutariamente deputata – rappresentata dalla nostra Commissione – con la massima attenzione alla riservatezza sui contenuti delle audizioni e degli orientamenti espressi“.

Recitano così alcune righe della consegna inviata dalla Commissione di designazione di Confindustria ai candidati alla carica di presidenza che si stanno contendendo la poltrona del presidente uscente Carlo Bonomi. Si tratta di una formula molto barocca, come tutte le formule organizzative, ma dal risultato inequivocabile: nonostante siano candidati e si stiano dando molto da fare per sostenere le proprie ambizioni gli attuali quattro candidati in corsa non possono parlare. Niente interviste, dichiarazioni, assemblee pubbliche. Tutto avviene in silenzio, “con la massima attenzione alla riservatezza“. Che però non è garantita per nulla perché, come è normale in una competizione tra esseri umani, le informazioni vengono fatte filtrare da fidati collaboratori e collaboratrici in un clima che, questa la parte più infida, lascia spazio a dossier e veleni.

Ne sa qualcosa uno dei quattro candidati, Emanuele Orsini, 50 anni, attualmente vicepresidente con delega alla Finanza, al Credito e al Fisco, medio industriale emiliano con circa 100 milioni di fatturato (sia con Sistem Costruzioni che con Tino Prosciutti Spa), uno dei primi a candidarsi, attualmente il più forte e proprio per questo il più osteggiato. Orsini è il candidato che forse più rappresenta l’anima verace dell’attuale Confindustria, una schiera di piccole e medie imprese, un po’ stanche dei giochi di potere che l’associazione ha sempre fatto a Roma e stanca di leadership che non hanno gambe piantate sul terreno e nei territori. La presidenza Bonomi esemplifica bene questa deriva, essendo l’attuale presidente colui che in molti vedono come un semplice “cerca poltrone”.

Nonostante si sia presentato al gong che ha dato inizio alla gara con 49 firme dei componenti il Consiglio generale uscente (182 membri) e quindi con il 26%, ben oltre il 10% necessario, contro di lui è partita una campagna immediata basata sulla richiesta del presidente di Federlegno Arredo, Claudio Feltrin, firmata però dal Cfo Gabriele Fraschini (Federlegno è l’associazione di categoria che Orsini ha diretto fino al 2020) di un pagamento arretrato per una autovettura, una Porsche, che Orsini avrebbe preso in leasing per sé e messa sul conto di Federlegno. Su questa vicenda sono usciti diversi articoli di giornale fermatisi poi di fronte alla querela per diffamazione presentata da Orsini contro Fraschini nella quale si dava conto del pagamento regolarmente effettuato da parte dell’industriale emiliano e dell’infondatezza delle accuse.

La vicenda è però finita, tramite lettera anonima, sul tavolo dei “saggi” che hanno ritenuto necessario convocare Orsini e, con una moral suasion implicita, consigliarli di ritirare la candidatura. Che però fosse un dossieraggio lo ha ammesso lo stesso Fraschini in una conversazione telefonica con un consulente di Federlegno in cui si è riferito esplicitamente al tentativo di imbastire un dossier per sputtanare quello che, guarda caso, si sta candidando alla presidenza. La cosa di fatto finisce qui, ma Orsini, che era in vantaggio, ha dovuto perder tempo per recuperare il discredito e poi dovendosi difendere davanti ai “saggi”. Ai quali, nel frattempo, giunge una lettera anonima – trasmessa dal segretario della Commissione e dei Probiviri, Federico Landi – su tutta la vicenda e che ritengono necessario ascoltare direttamente lo stesso Orsini esercitando una implicita pressione affinché si ritiri dalla corsa. Invito declinato dall’interessato che oggi annuncia di essere intenzionato ad andare fino in fondo e che, tra i vari appoggi ricevuti, ha incassato pubblicamente quello dell’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina (che il Sole 24 Ore ha provveduto a oscurare).

Il nome di Landi torna di nuovo in pista nel piccolo, e più innocente, caso che ha riguardato invece un altro candidato, Edoardo Garrone. E’ stato Landi, infatti, a segnalare che l’industriale genovese, titolare della Erg, aveva la sua società iscritta contemporaneamente all’associazione di categoria confindustriale, Elettricità Futura e all’associazione alternativa Anev. Un conflitto di interessi da sanare (come Garrone ha poi fatto, approfittando della segnalazione a suo vantaggio). Anche quella vicenda è stata fatta circolare ad arte.

Se Orsini è la piccola e media impresa, Garrone è il candidato della parte più forte di Confindustria, a partire da alcuni past president come Emma Marcegaglia, Vincenzo Boccia, Luigi Abete e altri big come Marco Tronchetti Provera, Fedele Confalonieri e Gianfelice Rocca. Garrone è anche il presidente del Sole 24 Ore Spa, presidente dei Probiviri della Fieg, la Federazione degli editori di giornali, presidente del Cda del Gaslini di Genova e conta circa 45 firme ai blocchi di partenza mentre, fa notare qualcuno in Confindustria, ha miracolosamente raggiunto il secondo step necessario all’ammissione al voto finale, cioè il 20% di adesioni tra i componenti del massimo organo associativo, l’Assemblea generale, già il giorno dopo l’ammissione della sua candidatura. Una gran capacità di portarsi avanti con il lavoro.

Se Garrone è espressione dei big di Confindustria, Antonio Gozzi avrebbe potuto esserlo. Il più anziano dei quattro, 70 anni, è anche il più potente. La sua Duferco fattura 40 miliardi ed è una multinazionale dell’acciaio e lui, di Federacciai, è il dominus incontrastato. Alle spalle ha un past president, Antonio D’Amato, ma anche l’ostilità aperta di Emma Marcegaglia e degli altri principali azionisti dell’associazione che vedono la sua presidenza come un problema. Su di lui è stata fatta circolare la presenza imbarazzante di capitale cinese nelle sue aziende, a cui ha replicato evidenziando l’italianità della proprietà e ricordando che i cinesi non hanno mai partecipato al capitale Duferco. Resta irrisolto il tema della sede lussemburgese della azienda, in genere derubricato a fattor comune di tante aziende italiane (cosa vera). Si è candidato con un numero di 32 firme e al momento rappresenta la spaccatura di quella “grande Confindustria” che invece ambirebbe a governare il processo. Punterà molto sull’Europa e attaccherà i due vicepresidenti, Marenghi e Orsini che non avrebbero fatto nulla. L’incognita però è se alla fine manterrà la candidatura oppure si alleerà con qualcun altro, magari lo stesso Orsini.

Alberto Marenghi, infine, 47 anni, presente ancora nella corsa con circa 20 firme a sostegno, è vicepresidente uscente, con delega all’Organizzazione in un ruolo che lo ha visto braccio destro di Carlo Bonomi. Dirige la Cartiera Mantovana, società da 50 milioni di fatturato e la collocazione geografica lo vuole abbastanza in sintonia con Emma Marcegaglia. Anche per questo si vocifera che prima o poi convergerà su Garrone e che per lui sarebbe pronta la presidente di Confindustria Lombarda.

Il quadro è questo e corrisponde, in fondo, a una competizione di un’associazione indebolita, con un ruolo sempre minore e che si trova a fare i conti con la ricerca di una leadership forte, ma che possa essere anche rappresentativa della pancia dell’organizzazione. In fondo era per questo che era stato votato Bonomi, che però non ha conseguito risultati. Ora Confindustria ci riprova, nella opacità di una corsa elettorale al cui interno fioriscono i colpi bassi.

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