“Da otto anni aspettavamo questo momento. Finalmente speriamo che questo processo possa partire. Le difese degli imputati hanno sollevato le eccezioni preliminari, niente di diverso da ciò che ci aspettavamo. Erano già state rigettate in tutte le altre Aule di giustizia, quindi speriamo, dopo la decisione della Corte Costituzionale che rafforza molto la nostra posizione, di poter avere un processo contro chi ha fatto tutto il male del mondo a Giulio”. Queste le parole di Alessandra Ballerini, legale, insieme al collega Giacomo Satta, di Claudio e Paola Regeni, genitori di Giulio, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel 2016, al termine della prima udienza del processo davanti alla Prima Corte di Assise di Roma.

I quattro agenti della National Security imputati sono il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, sotto accusa per il reato di sequestro di persona pluriaggravato. Nei confronti di quest’ultimo i pm contestano anche il concorso in lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio aggravato. In Aula i difensori dei quattro 007 egiziani imputati hanno sollevato una serie eccezioni preliminari, sulle quali la Corte scioglierà la riserva il prossimo 18 marzo.

Lo scorso settembre era stata la Consulta, di fatto, a sbloccare il processo, quando aveva accolto il ricorso in merito all’applicazione della riforma Cartabia relativo all’impedimento a celebrare il dibattimento in contumacia senza la certezza che gli imputati avessero ricevuto notifica del procedimento in corso. Questioni anche oggi rievocate dalle difese degli imputati, con le eccezioni sollevate.

Gli avvocati difensori hanno quindi chiesto ai giudici di dichiarare la nullità del decreto che dispone il giudizio su una serie di questioni, tra le quali l’indeterminatezza del capo di imputazione e il difetto di giurisdizione. “Abbiamo chiesto di far sapere all’Egitto che sono cambiati i presupposti. La sentenza della Corte costituzionale dice che anche in mancanza di notifica agli imputati in questo specifico caso il processo si può fare. E visto che la sorte degli imputati dipende da un terzo, ossia lo stato egiziano che non mi risulta un paese tendenzialmente democratico, abbiamo prospettato la questione alla Corte. Si può fare il processo senza dichiarazione di domicilio dell’imputato?”, ha rivendicato Tranquillino Sarno, che difende Athar Kamel Mohamed Ibrahim.

Sia il pm Sergio Colaiocco che i legali della famiglia, Ballerini e Satta, hanno invece ricordato come a loro avviso le questioni siano state sostanzialmente superate, a maggior ragione dopo la decisione della Consulta. “La Corte costituzionale non ha chiesto questo, l’eccezione non ha ragion d’essere”, ha tagliato corto il pm. E ancora: “Quel che conta non è la conoscenza delle generalità, ma la possibilità che il detenuto possa essere identificato in sicurezza per l’esecuzione della pena”. Ovvero, ha continuato, come avvenne “per un cittadino afgano” identificato “non con le sue generalità, ma con una fotografia” ha replicato sempre il pm Colaiocco. Ballerini e Satta hanno anche ricordato come gli imputati siano stati identificati proprio tramite i verbali della magistratura egiziana e arrivati agli inquirenti italiani tramite rogatoria e che l’identificazione fisica vale anche se non c’è un’esatta identificazione anagrafica. Nei verbali gli egiziani sono identificati in tre casi con nome, cognome, anno di nascita e numero del tesserino militare e in un caso con la data.

“Grazie a tutti voi, senza la scorta mediatica oggi non saremmo qui”, ha poi concluso la legale della famiglia, ringraziando cronisti e attivisti presenti fuori dal tribunale.

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