Amatorialità a teatro è una parola svalutata. Da tanto tempo ci siamo abituati a pensare al teatro amatoriale come alla brutta imitazione del teatro professionale, cioè a un far male qualcosa che altri sanno fare molto meglio. Ciò è dovuto al fatto che dicendo “dilettanti” pensiamo esclusivamente ai gruppi filodrammatici, al teatro dopolavoristico e parrocchiale, un mondo invisibile che comunque conosciamo pochissimo e può riservare anche delle sorprese quando lo si avvicina.

Così ci siamo dimenticati che, per secoli, nell’Europa moderna, fra Cinque e Ottocento, il teatro dei dilettanti (letterati, artisti, aristocratici) è stato spesso all’avanguardia rispetto a quello dei professionisti. Era un teatro rigoroso, coraggioso, sperimentale, come non poteva essere il teatro professionale, che per sopravvivere aveva bisogno del continuo consenso del pubblico pagante (e prima di mecenati desiderosi di divertimento).

Ma soprattutto ci siamo dimenticati che i dilettanti sono stati protagonisti decisivi delle rivoluzioni sceniche succedutesi dalla fine dell’Ottocento: da Antoine a Stanislavskij, da Strindberg a Fuchs, da Copeau a Decroux, per non citarne che alcuni. E l’intero, imponente fenomeno dei teatri agit-prop (al quale partecipò Piscator e che influenzò Brecht), fra anni Venti e Trenta, fu animato esclusivamente da lavoratori dilettanti. Finché, nel secondo Novecento, a partire dagli anni Sessanta, è lo stesso concetto di professionismo a entrare in crisi e a necessitare di un profondo ripensamento. Le esperienze e le riflessioni di Grotowski e del Teatr Laboratorium, come quelle di Judith Malina e Julian Beck del Living Theatre, di Peter Brook e di Eugenio Barba, fondatore e regista dell’Odin Teatret, stanno lì a dimostrarlo. Grazie ad essi, e a molti altri, si fa avanti l’idea di un nuovo professionismo, che recupera numerosi aspetti dell’antica amatorialità.

A mio parere, in Italia è stato soprattutto lo scrittore e poeta Giuliano Scabia (1935-2021), con il suo teatro a partecipazione (fatto con persone di ogni età e condizione sociale e che per tanti anni ha avuto gli studenti del Dams di Bologna come destinatari privilegiati) a inserirsi in questa filiera, naturalmente a modo suo, con caratteri di assoluta originalità. Si tratta di una filiera nella quale il teatro fatto con gioia, e che dà gioia (la charà di Platone, quello “stato di grazia” di cui Scabia ha parlato tante volte), diventa tutt’uno con il lavoro su se stessi e sulla relazione con l’altro, ponendosi come un itinerario di conoscenza profonda di sé e del mondo, costruito attraverso il gioco, il ballo, il canto, la poesia, la coralità.

Siamo in presenza, e non da oggi, di una nuova amatorialità, praticata con rigore e passione fuori dal professionismo tradizionale o ai suoi confini, con ricadute culturali, educative e civili importanti e in genere sottovalutate. Vi appartengono, ad esempio, tanto il cosiddetto Teatro sociale (fatto con giovani migranti, detenuti, disabili fisici e/o psichici, anziani) quanto i gruppi che si richiamano al Terzo teatro. Ma se devo menzionare un erede di Scabia faccio il nome di Marco Martinelli (fondatore del Teatro delle Albe a Ravenna, assieme a Ermanna Montanari), un vero mago nel creare teatro in ogni situazione, con giovani e giovanissimi delle periferie più disagiate del nostro Paese, e non soltanto. In un libriccino prezioso apparso l’anno scorso (Coro, AkropolisLibri, Genova), Martinelli ci svela alcuni dei suoi “segreti” di sciamano teatrale (ma lui parla di “guida-corifeo”, definendolo “un alchimista di oggi, paziente e accalorato, un poeta del noi”) per trasformare in Coro armonioso e gioioso, emanante vita e bellezza, un gruppo indifferenziato di adolescenti con tutti i problemi e i disagi che sappiamo.

E anche lui, come Scabia, sostiene che tutto inizia sempre col gioco: “Perché il gioco, come primo gradino? Perché tiene tutti vivi. Tutti abbiamo voglia di giocare, a qualsiasi età. Tutti siamo il piccolo Dioniso con i suoi giocattoli”.

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