Senza ricorrere alla letteratura scientifica o agli studi di David Garland sulla correlazione tra il venire meno dei servizi di salute mentale ed il progressivo aumento di persone psichicamente instabili in galera, è sufficiente leggere un report o partecipare ad un qualsiasi convegno di medicina penitenziaria per rendersi conto del fatto che una fetta di popolazione carceraria, affetta da problemi seri di salute mentale, in galera non dovrebbe starci.

A fronteggiare tale imponente muro di dolore e sofferenza, di diritti negati, di pene aggiuntive che si sommano a quelle comminate dalla giustizia, ci sono i componenti delle equipe psico-socio sanitarie o gli esperti ex art, 80 codice penitenziario che, nei tempi e modi stabilità dalla organizzazione penitenziaria, cercano di supportare con la loro presenza e competenza la detenzione. Sono psicologi, psichiatri, psicoterapeuti o criminologi che insieme agli educatori e ai volontari restituiscono al detenuto una dimensione di senso rispetto alla detenzione. In alternativa un approfondimento diagnostico che possa permettere di avere maggiori strumenti per evitare il rischio suicidario o, più semplicemente, per rielaborare in una prospettiva di cambiamento, errori e scelte che si sono tradotti in anni di carcere.

Questo facevano, ed io spero tornino a fare, le due psicologhe che si occupavano di Alessia Pifferi, detenuta per la terrificante e disumana morte di sua figlia Diana. Una bimbetta di 18 mesi che la madre ha abbandonato, sola a casa, per inseguire un suo sogno di amore. Due professioniste di grande esperienza che sono state travolte in una indagine voluta dallo stesso Pubblico Ministero del processo alla mamma infanticida, sul presupposto che nella loro attività professionale avrebbero complottato con la difesa. Nello specifico, che fossero andate ben oltre il loro incarico istituzionale arrivando a somministrare test che attestavano, nella Pifferi, un deficit cognitivo, manipolando la stessa detenuta. Tale attività, perfida e illecita o falsificata(?), avrebbe determinato nella difesa la strategia di chiedere una perizia (accordata dal Tribunale) per valutare lo stato di salute mentale dell’imputata.

Su questo presupposto, la Pubblica accusa ha scatenato tutto il suo potere (abnorme) intercettando per mesi le due psicologhe e culminando l’attività di indagine con una perquisizione a casa di entrambe alle 6 della mattina. Spogliando e perquisendo anche la figlia ventenne di una delle due professioniste, sequestrando i computer dei figli, somme di danaro a loro appartenenti e, evidentemente non bastava, riservando alle due psicologhe l’ultima e definitiva umiliazione: scortate da una decina di agenti sono entrate a San Vittore dal passo carraio a cui accedono i cellulari con i detenuti, esponendole allo sguardo attonito di detenuti, agenti penitenziari, colleghi. Il tutto per accompagnarle nei loro uffici per l’ultima perquisizione.

Con buona pace della dialettica processuale e del buon senso in cui, se si contesta il risultato di un test che si pensa non necessario o somministrato male se ne dispone la ripetizione ad altro professionista, si è preferito trattare le due psicologhe come fossero ganster passando, senza alcun ritegno, sulla vita professionale e personale delle stesse. Una cosa vergognosa quanto pericolosa se si riflette sulla ricaduta che tale precedente può avere su chi oggi lavora in carcere e teme, a questo punto, che ogni singola parola scritta nelle relazioni che andranno ad arricchire la cartella clinica del detenuto, potrebbe scatenare le ire di una qualsiasi Pubblica Accusa.

Non so cosa il Pubblico Ministero pensi rispetto alla attività di uno psicologo in carcere. Avendo bazzicato per anni diversi istituti di pena so che, ad esempio, una grande attenzione viene riservata al rischio suicidario. E che tale attenzione, se si ha il semplice sospetto di avere di fronte una persona che cognitivamente è molto fragile, viene amplificata da ciò che ci dice la letteratura scientifica che parla di correlazione tra chi è affetto da ritardo e rischio suicidario maggiore rispetto a chi non lo presenta. E la si ha, l’attenzione, indipendentemente dai processi in corso.

Non so cosa pensi il pubblico ministero dell’attività di un professionista in carcere. Nei tanti anni in cui ho svolto la funzione di criminologo mi sono fatta una idea ben precisa del carcere. Moltissime persone che ho incontrato non avrebbero dovuto passare un solo giorno in carcere. Altre strutture avrebbero dovuto accoglierle. Là dove ho potuto e ritenuto più adeguata una diversa struttura ho combattuto perchè ciò avvenisse. Così come ogni qual volta ho incontrato detenuti che mi lasciavano dubbioso sul loro equilibrio mentale ho sollecitato le equipe mediche affinché venissero presi in carico e si potesse arrivare ad una diagnosi certa.

Non per spirito antisociale o desiderio di rivolta eversiva, sentimento che il Pubblico Ministero addebita alle due professioniste indagate e che rappresenterebbe il motivo di tali maneggiamenti diagnostici. Ma semplice e dovere professionale acquisito in anni di lavoro.
Bruttissima storia con, temo, pessime ricadute. Un atto violento e totalmente irrispettoso nei confronti di chi esercita un delicato mestiere che poi è quello di mediare tra gli effetti della disumanizzazione di una istituzione e la reale possibilità di immaginare un futuro diverso. Un atto minaccioso nei confronti di professioni e contesti complessi di cui non se ne avvertiva la mancanza.

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