di Roberto Oliveri del Castillo*

In un interessante articolo comparso su La Verità del 31 gennaio 2024 il Presidente emerito di sezione della Cassazione dott. Pietro Dubolino ha criticato la sentenza n.2150/2024 della Cassazione in materia di violenza sessuale e, in particolare, il concetto di estensione temporale del consenso, che pur inizialmente sussistente, era nel corso della relazione venuto meno. L’uomo, tuttavia, invece di desistere e rispettare il dissenso della donna, aveva insistito, realizzando gli abusi contestati. Ebbene, il presidente Dubolino dubita della correttezza della decisione, ritenendo che l’iniziale consenso della vittima abbia in qualche modo “giustificato” i toccamenti ulteriori in zone erogene, che non possono ritenersi per tal via “inaspettati”.

Collegato a questo principio vi è quello della attualità del consenso per tutta la durata della relazione, contro il quale il presidente Dubolino sferra un attacco frontale, ritenendo che “a sostegno di tale dissenso non risulta fosse addotta alcuna specifica motivazione” da parte della donna. Azzardo una spiegazione all’originale approccio ermeneutico: l’abitudine a motivare provvedimenti, ordinanze e sentenze che deve aver eccessivamente condizionato l’autorevole censore. Il consenso di una donna a scambiarsi effusioni affettive con un’altra persona, non è un provvedimento giudiziario, e pertanto non va motivato. E soprattutto l’altra persona non deve condividerlo, o ritenerlo giustificato per osservarlo: deve solo rispettarlo.

Se il consenso agli atti sessuali viene meno, nulla autorizza l’altra persona a ritenere che la donna stia inscenando una specie di “schermaglia amorosa”, come la chiama il presidente emerito. Questi sono concetti che forse erano appropriati nel contesto degli anni 50/60 del secolo scorso, all’epoca in cui i reati sessuali erano ancora catalogati come reati contro la morale sessuale, c’era ancora il matrimonio riparatore, l’omicidio passionale, e l’insistenza dell’uomo tesa a vincere la resistenza della donna a subire atti sessuali era inquadrata nell’ambito della “vis grata puellae”. Da allora sono passati parecchi decenni, per fortuna è cambiato un mondo, un’epoca; quella cultura retriva e maschilista che trovava eco in norme e sentenze non c’è più.

Negli anni 90 del secolo scorso, quasi trent’anni fa, i reati contro la morale sessuale sono diventati reati contro la persona, e nell’ambito di questa rivoluzione copernicana che ha messo finalmente la donna come persona e non più come oggetto al centro della tutela, parlare ancora di comportamento della donna che “ha inizialmente accettato” le avances dell’uomo, salvo interrompere tali effusioni “senza alcuna apparente ragione”, tanto da far “presumere che esso (comportamento) rientrasse in una sorta di schermaglia amorosa”, appare veramente senza senso, se non un nostalgico tornare ad un’epoca che per fortuna non esiste più.

E per fortuna, allo stato della attuale giurisprudenza, tanto criticata dall’autorevole censore, perché vi sia reato non si fa riferimento al consenso tout court, come autorevolmente evocato, ovvero che il consenso sia valido anche se espresso, poniamo, in stato di ubriachezza.

Andando oltre la violenza vera e propria, infatti, la riforma del 1996 ha modificato radicalmente il reato, parlando genericamente di “abusi sessuali”. Infatti, alla stessa pena di chi “con violenza o minaccia o abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali” soggiace chi “induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; (…)”.

Come si vede, la giurisprudenza non centra, è il legislatore che prevede come possano verificarsi abusi anche laddove il consenso della vittima sia ottenuto in modo non genuino, come ad esempio ricorrendo a sostanze alcoliche e/o stupefacenti, ovvero modalità che rendono totalmente invalido il consenso a causa della obnubilazione delle facoltà mentali e pongono la vittima in condizioni di inferiorità psico-fisica. Modalità talmente subdole e ricorrenti, che un Legislatore particolarmente attento quale quello del 1996 ha ritenuto di modificare la norma e includerle tra i comportamenti costituenti reato, di talchè l’aggressione alla sfera sessuale della donna si verifica o attraverso il classico metodo violento o minaccioso, oppure attraverso il più subdolo metodo induttivo attraverso l’uso di sostanze alteranti, o abusando di condizioni patologiche di inferiorità. Evidentemente la riforma del 1996 allargando la tutela agli abusi non violenti ha destato lo scalpore del censore, dato che ritiene così scoraggiate “le più normali forme di approccio maschile nei confronti dell’altro sesso”.

Non ci interessa, in verità, quali siano tali “più normali forme di approccio maschile”. Ma se il presidente emerito fa rientrare in queste forme le insistenze maschili miranti a forzare il dissenso della donna, se si ritiene che questo dissenso debba essere motivato (e magari che questo dissenso debba pure essere ragionevole e condiviso, altrimenti è irricevibile), se si considera validamente espresso un consenso ad atti sessuali effettuato sotto effetto di alcool o sostanze alteranti, allora, la tesi dell’autorevole Presidente è sicuramente dentro il perimetro penale, e crediamo un bene che sia espressa sulle pagine di un giornale tra i commenti piuttosto che in una sentenza.

La cultura giuridica si evolve con la società nel suo insieme: spazio per nostalgie di epoche oscurantiste risalenti al secolo scorso è bene che non trovino spazio nella giurisdizione.

* Consigliere della Corte d’Appello di Bari

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