Erano i primi anni Duemila quando San Precario teorizzava i 5 “assi della precarietà”: reddito, casa, salute, mobilità e saperi. Al di là del lavoro, che già si presentava in larga misura come intermittente, precario, autonomo e sottopagato, andava garantito il futuro delle generazioni precarie con un reddito universale incondizionato e il riconoscimento dei diritti sociali di base.

In questi anni molte cose sono cambiate, anche se i problemi generali sembrano rimasti gli stessi: il lavoro è diventato in toto precario grazie al Jobs Act, mentre il lavoro povero è sempre più diffuso, ed appare ancora più problematico in questa fase in cui l’inflazione è aumentata erodendo il potere d’acquisto di milioni di cittadini, a fronte di una contrattazione collettiva indebolita, che si rivela uno strumento non più in grado di redistribuire ricchezza in maniera adeguata; lavoro povero che non è solo quello che viene mal retribuito, con milioni di persone che si ritrovano, lavorando, al di sotto della soglia di povertà relativa, ma è anche quello della galassia degli autonomi, dei part-time involontari, dei falsi occasionali, dei gig worker (come ad esempio i rider pagati a cottimo).

Anche sul fronte delle salute la situazione è peggiorata: negli ultimi vent’anni la spesa sanitaria a carico delle famiglie è cresciuta del 25% (al netto dell’inflazione), tanto che il 9% delle famiglie versa in difficoltà economica per le spese mediche ed il 7% della popolazione rinuncia a cure di cui avrebbe bisogno.

Il governo Meloni porta avanti la sua crociata contro i poveri con l’abrogazione del reddito di cittadinanza, dopo averlo sostituito con una sua versione ridotta per una platea più ristretta di “inoccupabili”, con l’Assegno di Inclusione e il Supporto per la Formazione al lavoro, lasciando così senza sussidio 2 milioni di persone a partire dal primo gennaio di quest’anno. Va sottolineato che il reddito aveva significato, al netto delle storture e degli abusi da parte di una percentuale minoritaria di percettori (stimata al 15%), un avanzamento significativo che portava molti cittadini a una soglia di dignità esistenziale, oltre che un effetto positivo come strumento di contrasto al sottosalario e allo sfruttamento.

L’attuale esecutivo ha cancellato anche il contributo di sostegno all’affitto, dopo pochi mesi dal suo inserimento. Nel frattempo nessuna politica abitativa è all’orizzonte, nonostante il problema della casa sia esploso, in particolar modo nelle aree urbane, ed interessi sia gli studenti che i lavoratori. Con la legge di bilancio appena approvata, abbiamo potuto verificare quanti pochi soldi siano stati stanziati per sanità, scuola e trasporto pubblico, servizi strutturali in emergenza continua.

Quindi, che si fa? Back in the days. Ritorno al futuro per un welfare per vivere.

Oggi non si tratta tanto di fermare la diffusione della precarietà, ma di trasformarla per valorizzare le sue potenzialità. Occorre imporre le condizioni perché le persone siano nella posizione di opporsi alla propria condizione di subalternità, sottraendosi con comportamenti alternativi e oppositivi. Il fenomeno recente delle “grandi dimissioni”, pur con tutti i limiti, segnala uno spettro di possibili forme di resistenza.

Una cosa è sicura: servono lavoro e tutele, ma prima di tutto occorre welfare:

1. Il reddito, incondizionato e di base, per favorire l’autodeterminazione delle persone, sia essa emancipazione dal ricatto dalla precarietà o dal lavoro nero o da un “bullshit job”, ma anche da una situazione di violenza domestica;
2. Il diritto alla libera circolazione delle persone e accesso ad una mobilità sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, con un servizio di trasporto pubblico urbano gratuito per i meno abbienti;
3. La casa, ovvero un alloggio dignitoso per tutte le tasche: il mercato immobiliare offre soluzioni inaccessibili, soprattutto nelle aree urbane ad alta tensione abitativa; per questo serve un’offerta pubblica per la casa e alloggi a canoni calmierati per i nuovi poveri.
4. Il sapere che diventa potere: il diritto ad un’educazione affettiva e transfemminista, il diritto a un’istruzione pubblica di qualità che va tutelato contro i tagli al diritto allo studio; va inoltre posto come obiettivo quello di garantire un libero accesso gratuito a internet per tutte e tutti.
5. La sanità pubblica, un servizio al cittadino che va finanziato adeguatamente: senza risorse la salute civica è a rischio, e lo stesso vale per la salute mentale (vi è una domanda crescente di un supporto psicologico di base o di accesso ai centri anti-violenza).

Una traccia ambiziosa, ce ne rendiamo conto, soprattutto considerando lo storico orientamento bipartisan dei governi italiani: negli anni, il centrodestra come il centrosinistra hanno falcidiato lo stato sociale a favore dell’impresa privata. Ci sembra però quanto mai urgente ritornare ai fondamentali, e ragionare su quello che ci serve, prendendo spunto dai cinque assi della precarietà. In un momento in cui l’orizzonte globale, tra guerre (e corsa al riarmo), disastri ambientali, epidemie e crisi economiche, ci fa percepire tutto come precario, quanto il lavoro e più del lavoro, forse è giunto il momento di definire ciò di cui abbiamo bisogno per continuare a vivere e ad esistere, ciò per cui vale la pena davvero lottare: il nostro futuro.

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