Dalle pratiche commerciali sleali alle vendite sottocosto fino alla Politica agricola comune che, quando si tratta di contributi, dimentica i piccoli agricoltori a cui non si garantisce un reddito. Questo il peso che porta con sé la protesta dei trattori, più profonda del malcontento per il taglio di sconti sul gasolio o di quello dell’esenzione Irpef la cui cancellazione è in discussione alla Camera. Almeno è ancora più profonda per gli agricoltori sempre più penalizzati in una filiera agroalimentare dove a dettare legge è un sistema piegato, tuttora, alla Grande distribuzione organizzata. Nulla è cambiato neppure durante la pandemia e nulla rischia di cambiare se non si dà seguito alle norme comunitarie messe in campo negli ultimi anni, ma la cui attuazione in Italia fa i conti con deroghe e distorsioni. Il risultato è che nella Penisola, dal 2016 al 2021, il 31 per cento delle aziende (quasi 4mila) ha chiuso i battenti. Allo stesso tempo, la superficie agricola utilizzabile (Sau) è diminuita del 2,5%, ma le aziende italiane rimaste in piedi sono diventate sempre più grandi. Da qui anche lo strappo con Coldiretti. “Tra le prime cause della crisi dell’agricoltura ci sono tuttora le pratiche sleali e le vendite sottocosto” spiega a ilfattoquotidiano.it Dario Dongo, avvocato esperto in diritto alimentare internazionale e fondatore di Gift, Great Italian Food Trade.

Le pratiche sleali – Nel 2013 l’Antitrust ha condotto un’indagine e segnalato le pratiche con cui i distributori riuscivano a spuntare sconti e contributi che valevano in media il 24,2% del fatturato delle imprese fornitrici. Ci sono voluti diversi anni, ma nel 2019 l’Unione europea ha approvato la direttiva 633 (Unfair Trading Practices) che non solo vieta 16 pratiche commerciali sleali, ma anche la riduzione, da parte degli Stati membri, delle tutele assicurate ai fornitori di prodotti agricoli e alimentari. Tra le pratiche sleali vietate, i pagamenti in ritardo, gli annullamenti di ordini dell’ultimo minuto, il rifiuto di fornire contratti scritti, ma anche le aste online al doppio ribasso, con cui una catena chiede ai fornitori qual è il prezzo minimo che sono disposti ad applicare per un prodotto, scegliendo quello più basso di tutti (e che diventa la base di una seconda asta a scendere). Pratiche che comportano pressioni sui vari fornitori della filiera, con conseguenze durissime per gli anelli più deboli, come i piccoli agricoltori (e i braccianti).

L’anomalia del decreto italiano – Che cosa è cambiato? “La Grande distribuzione organizzata tende a tenere i listini fermi nonostante i rincari, insopportabili per gli agricoltori e tuttora, nonostante i divieti sulle pratiche sleali, il sistema è ancora tutto sbilanciato vergo la Gdo” spiega Dongo. Ma ci sono anche altri problemi. “Il decreto legislativo 198 del 2021 con cui la direttiva è stata attuata in Italia – aggiunge l’esperto – esclude dal campo di applicazione i conferimenti dei soci nelle cooperative e le cessioni di prodotti agricoli e alimentari alle organizzazioni di produttori”. Significa che chi trasferisce le sue derrate alla cooperativa o all’organizzazione dei produttori non può contare sulle tutele previste nella direttiva, come racconta Gift nell’inchiesta ‘Vanghe Pulite’, anzitutto rispetto ai termini di pagamento e, poi, ai divieti di vendite sottocosto. “Le cooperative e le organizzazioni di produttori – continua Dongo – si possono permettere di tirare il collo ai fornitori e, per esempio, pagare il latte a 0,46 euro, invece che a 0,51, perché parliamo di un comparto produttivo con marginalità minimali”. Dunque, il decreto ha favorito cooperative e organizzazioni di produttori (che, secondo alcune stime, rappresentano circa un terzo della produzione, ndr) penalizzando i piccoli agricoltori che le riforniscono, ma anche gli altri agricoltori che offrono i loro prodotti sul mercato in concorrenza con le cooperative. “Un’anomalia, gravissima, tutta italiana” commenta. La direttiva, inoltre, prevedeva che i controlli dovessero essere sistematici e adeguati e le autorità dovessero presentare relazioni annuali sulle verifiche eseguite. “Di tutto questo non c’è contezza – aggiunge Dongo – ma sappiamo che il decreto ha affidato la vigilanza a Icqrf (Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari), nonostante non sia nelle sue competenze e non abbia le risorse per poter eseguire questo tipo di controlli”. L’altro problema riguarda la vendita sottocosto. Il decreto vieta la vendita sottocosto, ma affida la stima dell’indice dei prezzi ai rapporti Ismea. “Questi rapporti non solo non posso fornire dati puntuali relativi a tutta la filiera e a tutte le regioni italiane – sottolinea – ma si basano su fatture a loro volta viziate dal problema del sottocosto e della concorrenza sleale”.

Ari: “Dalla Pac solo briciole” – In questi giorni anche l’Associazione Rurale Italiana, che fa parte del Coordinamento europeo Via Campesina, è tornata a chiedere l’effettiva attuazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali e il divieto a livello europeo di vendere al di sotto dei costi di produzione. “I prezzi pagati agli agricoltori devono coprire i costi di produzione e garantire un reddito dignitoso. I nostri redditi dipendono dai prezzi agricoli ed è inaccettabile che questi siano soggetti a speculazioni finanziarie” sostiene Ari. E tocca anche un altro tasto dolente, i sussidi della Pac. “Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Pac vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. È inaccettabile – sostiene l’associazione – che nell’attuale Politica agricola comune la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, mentre la maggioranza degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo le briciole”.