Dopo quelle dei giorni scorsi, proseguiamo e ultimiamo la pubblicazione delle testimonianze inviate dai nostri lettori sul Giorno della Memoria.

Le misere giornate della “mia memoria” sono in assoluto nulla se confrontate con le sciagure dell’Olocausto e dell’immane tragedia provocata dal nazifascismo, anche se hanno rubato a me e a tanti altri bambini del ’40 quella infanzia che non abbiamo mai vissuto. Ora sono vecchio, uno di quei vecchi che non sono stati mai bambini. Non lo si poteva essere in quei terribili anni ’40 vissuti in una Napoli distrutta dai bombardamenti, umiliata dalla miseria e dalla fame e lacerata da migliaia di vittime che insieme ai milioni di morti in tutto il mondo pagarono con la vita le diaboliche ambizioni di due esaltati. Questo angoscioso ricordo vorrei che lo conoscessero in particolare quei giovani fanatici che esibiscono il saluto romano e quel 17% di italiani che negano la Shoah, le leggi razziali e lo sterminio di oltre sei milioni di ebrei. Ma cosa ne sanno di quella sventura i ragazzi che oggi godono di cose che a noi degli anni ‘30/40 non era neppure permesso di sognare? Mancava tutto, abbondava solo la paura, che diventava terrore quando improvvisamente di notte le sirene annunciavano l’arrivo dei bombardieri e si doveva scappare nei ricoveri sotterranei. Ora che sono così vecchio rivedo sempre più spesso mia madre piangere davanti alla dispensa vuota e al focolare spento. Quanti sacrifici per preparare un poco di pane con un pugno di farina mischiata alla segatura e una zuppa con le bucce di piselli, fave e patate. Non meno duro è stato il dopoguerra: abitazioni distrutte, condizioni di vita difficilissime, miseria e mancanza di ogni bene di prima necessità. La mia mente è affollata dai ricordi degli stenti di noi bambini d’allora, a cominciare dal desiderio di una fetta di pane. Ci pensate? Un poco di pane chiedevamo, non una porzione di timballo di maccheroni o un pollo arrosto o una fetta di torta, solo un poco di pane… un poco di quel pane fatto con un pugno di farina e due di segatura…

Raffaele Pisani


Quando da bambina ero in vacanza dalla nonna in Toscana spesso erano invitati a pranzo suoi amici, marito e moglie: i signori Ottolenghi. Dai discorsi di mamma e nonna si capiva che erano ebrei e che erano stati aiutati a sfuggire alle persecuzioni e alla deportazione proprio dai miei nonni. Ma la cosa notevole è che i miei nonni di Montefoscoli erano fascisti, il nonno era anche stato podestà di Palaia! Evidentemente per loro, come per molti altri Italiani, i valori umani superavano il rispetto delle leggi considerate inique. Recentemente un ingegnere in pensione, Luigi Benvenuti di Chianni, ha scritto un romanzo molto toccante sulle vicende delle famiglie ebree della Valdera: La Vacanza.

Sofia Donalisio


Mio nonno, Igino Cavedoni, abitava a Guiglia, comune collinare vicino a Vignola nel modenese. Aveva fatto la prima guerra mondiale come ferroviere sulle tradotte militari, era stato anche ferito, e ora viveva da pensionato ultra cinquantenne (allora la Fornero non c’era). Quel giorno di novembre 1943, come mi raccontò poi mia nonna, poiché io non ero ancora nato, si recò a Vignola, lontana 10 km, per alcune compere con un carretto. Sul ponte del fiume Panaro che introduceva nel centro di Vignola fu fermato da una pattuglia di 5 tedeschi armati che gli chiesero i documenti; purtroppo sui documenti mancava un timbro, era una disposizione nuova, ma lui non lo sapeva. I tedeschi lo spinsero contro la spalletta del ponte e puntarono i mitra contro il poveretto, il quale capì che volevano fucilarlo. Parti una fragorosa raffica, ma era a salve, seguita dalle risa sguaiate dei maledetti, che volevano solo divertirsi alle spalle del poveraccio. Mi raccontò mia nonna, che ora non c’è più, che giunto a casa dovette immergerlo in una tinozza e lavarlo dalla testa ai piedi perché per la paura se la era fatta letteralmente addosso. E gli si può ben credere. Se i mitra non fossero stati a salve un anno dopo non sarebbe nata mia madre, e quindi non sarei qui a raccontare neppure io.

Enrico Costantini


Mio zio, fratello di mia madre, nel novembre 1943 non volle arruolarsi nella repubblica di Salò ed insieme ad altri 12 ragazzi di vent’anni cercò di scappare in Svizzera. Vennero catturati dai fascisti a Cannobio (alto Lago Maggiore) caricati sui carri bestiame ed inviati al campo di sterminio di Bergen Belsen. Ritornarono in due, gli altri morirono di stenti e percosse. Uno venne ucciso dai cani dei nazisti perché… aveva “rubato le BUCCE delle patate che doveva sbucciare per i nazisti. Mi raccontò che al ritorno in patria una madre gli chiese di suo figlio… e lui rispose che non lo sapeva ma in realtà era morto di stenti! Non permettiamo con tutte le nostre forze e in maniera democratica che i fascisti ed i loro eredi possano ritornare a distruggere il nostro Paese.

Leonardo Torgnano


Mio nonno paterno, Silvio Pipinato, era autista in uno dei convogli militari mandati sul fronte jugoslavo nella Seconda Guerra Mondiale. Raccontava, senza mai riuscire a scordarlo, di un agguato dei “ribelli” nel quale un suo commilitone fu trucidato con una sventagliata di mitra. Avevano preso riparo dietro al camion ma lo sventurato volle rischiare uscendo allo scoperto per recuperare il fucile. “Assa stare el sciopo, mona, che quei te copa!” provò a dissuaderlo, senza riuscirci. Appena fuori dalla copertura fu crivellato dai colpi. Dopo l’8 Settembre furono fatti prigionieri dai Tedeschi al cui fianco avevano combattuto fino al giorno prima. Per tranquillizzarli fu detto loro che passata Trieste sarebbero stati dirottati a sud-ovest verso il Veneto. Capirono che la loro sorte era segnata quando il convoglio proseguì invece verso nord, per raggiungere la Germania. Rimase per il resto del conflitto ai lavori forzati nel Lager Sudest N.2 presso Lipsia. Il regime era molto duro, specie per le rigide temperature della Sassonia e la scarsità del rancio. In molti non ce la fecero ed il freddo patito, oltre al viziaccio del fumo, gli avrebbe causato anni dopo l’amputazione delle gambe. Mi raccontava però di come (probabilmente dopo essere stato liberato dai Tedeschi da Campo Imperatore), “il Duce” supplicò Hitler di non “maltrattare i suoi figli”, i prigionieri italiani, ed il rancio migliorò. Lui e altri si salvarono e tornarono a casa in un lungo viaggio di rientro su mezzi di fortuna e dai toni dell’epopea omerica. Nonno Silvio mi diceva dei “ribelli”, non sapeva dare nessun dettaglio più preciso in risposta alle mie domande da liceale. Ed “il Duce”, mai Mussolini, fu quello che “gli salvò la vita”!

Di fronte ai suoi racconti provai sempre una profonda tenerezza per come alla povera gente, frastornata dalla propaganda tenuta per lo più all’oscuro dei fatti, non fosse mai realmente data alcuna scelta. Pedine cieche e carne da cannone sacrificate all’altare della Storia dei Grandi, l’unica che sarebbe poi finita nei libri di testo.

Andrea Pipinato


Pochi giorni fa, il nostro amato babbo e nonno Mario Cozzolini avrebbe compiuto 100 anni: era infatti nato a Livorno il 4 gennaio 1924 e allo scoppio della seconda guerra mondiale lavorava al Cantiere Navale Luigi Orlando e viveva con i genitori, due fratelli e quattro sorelle. Di anni ne aveva invece appena 20 quando fu arrestato su un treno nei pressi della stazione labronica, con la scusa di un controllo documenti, visto che non si era voluto arruolare nonostante l’appartenenza alle classi chiamate alle armi. A seguito dei bombardamenti era infatti sfollato con la famiglia in provincia di Pistoia ma tornava frequentemente a Livorno per avere notizie di familiari e amici e per procurare alla famiglia beni di prima necessità. Dopo l’arresto fu condotto a Firenze, dove prima venne detenuto in luogo ignoto, per poi essere forzatamente caricato a Gennaio del 1944 su un treno di lavoratori “volontari” (in realtà coatti) per la Germania. Riuscì a fuggire con due compagni durante il viaggio ma su denuncia di un contadino locale vennero ripresi nel paese di Matrei, vicino al Brennero; da lì venne portato al campo di rieducazione al lavoro di Reichenau, per essere impiegato nelle riparazioni della linea ferroviaria. Successivamente fu condotto alla Gestapo di Monaco di Baviera dove venne barbaramente torturato e percosso; il 19 febbraio del 1944 venne internato nel campo di concentramento di Dachau con la matricola 64141, triangolo rosso (prigioniero classificato “Schutz”). Durante la prigionia venne usato per il lavoro schiavo soprattutto all’esterno del campo, spostato secondo necessità tra i vari sottocampi di Dachau, svolgendo nuovamente riparazioni ferroviarie e lavorando anche in una fabbrica locale. Nel campo di concentramento si susseguirono epidemie a seguito delle quali venne per due volte ricoverato nell’infermeria, uscendone miracolosamente. Nella desolazione del campo trovò un forte sostegno nella solidarietà dei compagni di prigionia, in particolare dei religiosi internati tra i quali Don Roberto Angeli, prete antifascista livornese, con il quale rimase in rapporti di amicizia e stima per tutta la vita. Venne infine liberato dall’esercito americano il 29 aprile del 1945, dopo 16 mesi dall’arresto nei quali aveva vissuto sulla propria pelle tutte le sfumature dell’esperienza atroce della deportazione: detenzione, lavoro in condizioni di schiavitù, torture fisiche e vessazioni mentali, fame e sofferenza. Alla liberazione pesava 38 kg e per tutta la vita soffrì postumi fisici di quanto subito. Dopo un viaggio lungo e complicato riuscì a tornare nella sua città natale dove, per una beffa pirandelliana, ricevette in prima persona la missiva che comunicava della propria morte nel campo di concentramento: un errore che testimoniava la confusione del momento post bellico, ma anche una forte metafora dell’esperienza alienante vissuta, tanto che gli si impresse per sempre nel ricordo.

Nel 2023, in occasione della giornata della memoria, è stata posta una pietra di inciampo in suo ricordo a Livorno.

Famiglia Cozzolini


Sarà stata la metà di settembre del 1943. Mio nonno, Angelo, combatteva in Grecia e lui, come i suoi compagni non erano a conoscenza dell’Armistizio dell’8 settembre 1943. Arrivarono i tedeschi: “vi riporteremo in Italia” così dissero. I partigiani greci li redarguirono e gli intimarono di non andare. Angelo, come i suoi compagni, aveva solo 20 anni e voleva tornare a casa. Accettarono e partirono. Ma quel treno non era diretto in Italia, ma nel campo di concentramento di Dachau. Capirono che da alleati erano diventati prigionieri politici. Mio nonno me li raccontava sempre i giorni al campo, sorrideva quando mi raccontava le interminabili ore di lavoro e si arrabbiava quando a casa la nonna cucinava la pasta e patate, perché a Dachau li costringevano a mangiare le bucce di quei tuberi. Una volta gli chiesi se odiava i tedeschi, mi disse di no, mi disse che fu grazie a un generale tedesco che lo aveva preso in simpatia se riuscì ad andare avanti e poi a salvarsi. klein lo chiamava, “piccolo” per la sua statura. Dopo la liberazione del campo a fine aprile del 1945, il nonno riuscì a tornare in Italia, in Puglia, dopo mesi di viaggio a piedi. Si vedeva un luccichio agli occhi, quando parlava di quel generale tedesco, che lo aveva preso a cuore. A me, è sempre piaciuto pensare che, anche nel buio più terribile, si trova sempre qualcuno disposto a tendere la propria mano, anche se in questo caso la mano tesa era quella del nemico.

In memoria di nonno Angelo e delle vittime dell’Olocausto.

Sabrina Santoro


Gino.

1943: sono un soldato italiano in Montenegro, il rumore degli spari copre le grida dei miei pensieri fino a quanto sento un cupo boato e, subito dopo, un insopportabile caldo al collo. Me lo tocco e, quando guardo, la mia mano è piena di sangue. Mi fasciano e mi trasportano in un’improvvisata infermeria, dove un dottore alto e asettico dichiara che non si possono estrarre le schegge e che me le dovrò tenere come ricordo del servizio alla patria. Passano i giorni, arriva la notizia che il maresciallo Badoglio ha firmato l’armistizio, ma il mio sospiro di sollievo si trasforma in un groppo in gola quando un capitano tedesco ci chiede di continuare a combattere con loro. Pochi accettano, io e molti altri siamo caricati in vagoni per il bestiame e viaggiamo per giorni e notti. Qualche volta ci fanno scendere per i nostri bisogni, ma la maggior parte ha già provveduto nei vagoni stessi. Poco roba, visto che non ci danno né da mangiare, né da bere. Un sole pallido ci accoglie quando arriva l’ordine di scendere e veniamo convogliati in baracche di legno che non hanno le finestre. Credo di essere in Germania, ma non ne sono sicuro, vedo solo il nero della miniera di carbone in cui lavoriamo diciotto ore al giorno e il buio della baracca. Vedo i miei compagni morire di fame e di stenti, assaggio una brodaglia schifosa chiamata rancio e le mie mani scavano nelle immondizie alla famelica ricerca di bucce di patate. Chiamo la morte, come feroce giustiziera dell’annientamento dell’uomo, cerco addirittura di darle una mano, ma è troppo impegnata e non riesce a esaudire il mio desiderio.

Giuseppe Callegari


Il fratello di mio nonno materno, Tremolada Ambrogio, fu uno dei molti operai monzesi che scioperarono nel marzo del 1944 nell’area industriale di Sesto San Giovanni. Operaio della Falck venne prelevato dai repubblichini poco tempo dopo nella notte e inviato nel campo di Gusen, Campo collegato a Mauthausen, ove morì. Il comune di Monza ha dedicato il bosco della memoria con una pianta per ogni cittadino che si è opposto in tal modo alla violenza nazifascista. Non dimentichiamo tali orrori e mostriamo coraggio per scelte di mediazione e dialogo evitando l’illusione delle armi come soluzione dei conflitti.

Ettore Caloni


Mio padre Dante, classe 1910, venne richiamato alle armi e partì per l’Albania il 16.4.1942. Fu catturato dopo l’armistizio nel 1943, deportato in Germania nell’ottobre dello stesso anno, sottoposto al trattamento riservato ai prigionieri italiani, considerati “traditori”, i cosiddetti IMI (Italienische MilitarInternierte) chiamati anche “schiavi di Hitler”. Fu costretto, insieme ad altri disperati suoi commilitoni, a vivere in condizioni degradanti a lavori forzati nelle aziende belliche Tedesche (mio padre a Zittau) fino al 8.5.1945. Turni massacranti di 12 ore al giorno, marce di chilometri per andare e tornare dal lavoro. Non poterono, né lui né gli altri, contare sugli aiuti della Croce Rossa come prigionieri di guerra. Relegati in fredde baracche, vitto al minimo: un pezzo di pane e brodo di patate e rape da dividere, vestito con lo stesso abito della cattura, giacigli di paglia infestati da pidocchi; compagni che morivano per malattie e stenti. Rientrato in Italia non fu più la stessa persona, come se nella sua mente fosse rimasta una cicatrice sempre aperta. Parlava raramente di quegli anni, solo insistendo allora si lasciava andare. Una frase che diceva mi colpì in maniera brutale: “Se suo figlio un giorno avesse sofferto gli orrori della guerra, sarebbe stato meglio che morisse prima ancora di nascere…”. Fortunatamente non accadde nulla di simile: nacqui io nel 1953… e mio padre morì nel 1980, portando con sé quel fardello carico di dolori, umiliazioni e sofferenze.

Claudio Renato Bellani


Nel 2012, insieme a un comitato di cittadini del quartiere Flaminio, su invito di Zingaretti, preparammo una serie di storie per il centenario del quartiere. A me toccò la Chiesa di Santa Croce. Mia figlia Francesca trovò un libricino della Chiesa in un negozio dietro Piazza Fontana di Trevi. Con stupore sul libricino trovai, oltre al committente, Papa Pio X, l’architetto Aristide Leonori eccetera, anche la storia del Parroco, Don Emilio Recchia, che era stato anche il mio parroco quando feci la comunione, il quale durante l’occupazione nazista di Roma tra l’8 settembre 1943 e giugno 1944 nascose nei locali della chiesta tante persone ricercate dai fascisti e dai nazisti, tra i quali un centinaio di romani di religione ebraica, quattro famiglie. È stato un po’ complicato ma ce l’ho fatta. Ho trasmesso queste notizie allo Yad Vashem.

Giorgio De Tommaso


Ho varie storie da raccontare di cui una va oltre il credibile ma è documentata. Sono storie di gente che ha salvato ebrei dalla deportazione e di ebrei che sono riusciti a salvarsi. Per capire la storia devo fare una premessa. Lo zio di mio padre, Georges Catroux, nel 1915 era colonello e fu catturato dai tedeschi. Nel suo campo di prigionia fece la conoscenza di un Giovane capitano: Charles de Gaulle con il quale tentò varie volte di evadere. Tra di loro nacque una grandissima amicizia.

La più incredibile riguarda mio padre francese, Diomède Cattroux. Quando inizia la guerra, lui è tenente e pilota in una squadriglia di BCR (aerei caccia, ricognizione, bombardieri). Mio pro zio era governatore dell’Indocina francese. Il 18 giugno entrambi decidono di raggiungere de Gaulle. Vichy si vendicò e fece arrestare mio nonno e i 2 fratelli di mio padre che furono mandati in campo di concentramento con i figli del generale. Le donne furono buttate per strada. La moglie del figlio del generale Catroux, René Catroux, Hélène Catroux, raggiunge sua madre a Nizza e salva dalla deportazione dei bambini ebrei. Per questo la si trova nel libro dei giusti. Mio padre dovette occuparsi di una decina di bambini ebrei che erano arrivati in Inghilterra. Lui si ricordava che tutto è accaduto nel 43 ma doveva essere il 42 perché nel 43 fu mandato in America dove incontrò Antoine de St Exupéry e lo convinse di raggiungere de Gaulle (Lettera al tenente Diomède Catroux, La Pléaide, ultima edizione). Nell’aprile 45 viene mandato in ricognizione con un gruppo di soldati in vista dell’attraversamento del Reno da parte delle forze francese libere. Durante la perlustrazione i tedeschi, alla sua sorpresa, si arrendono in massa e gli viene chiesto di visitare come testimone dei campi di concentramenti e uno di sterminio. Ha avuto anche le testimonianze di suo padre e dei suoi fratelli. Un orrore e loro in quanto prigionieri politici erano meglio trattati dei prigionieri ebrei.

La seconda storia riguarda la mia famiglia italiana, il fratello di mio nonno e mio nonno, la famiglia Ciardi. Erano imprenditori di rilievo nell’edilizia ed erano importanti. Erano fascisti. Mia madre, mi0 zio e le mie zie erano fasciste ma erano anche giusti. Cosi fecero fuggire in Svizzera i loro dipendenti ebrei e le loro famiglie da una parte e dall’altra dichiararono che i loro dipendenti ebrei erano insostituibili per alcuni lavori urgenti chiesti dal Governo fascista. In tal modo li salvarono dalla deportazione.

Diomede Catroux


Dai nazifascisti non furono deportati e uccisi solo ebrei, ma pure coloro che non aderirono alla repubblica di Salò. Provenienti dalla sola frazione di Villalta, nel piccolo paesino Bellunese di Agordo, vennero catturati sette giovani e deportati in Germania. Tra loro, Rumor Marcello, fratello di mia madre. Stando ai racconti di quest’ultima (mancata nel 2015), uno di loro ritornò dal lager (Certo Corona, mai conosciuto), il quale testimoniò che lo zio morì a seguito di brutali percosse per tentata evasione. Zio Marcello aveva solo vent’anni.

Paolo Decima


Ricordo perfettamente 3 refrain di mio padre Dante, feroce antifascista della prima ora (oltre a tantissimi racconti degli anni ‘40/’43 ma soprattutto dei mesi successivi all’8 settembre ’43) che erano nell’ordine:

1) la vita con la tessera annonaria durante la guerra, questione che veniva sollevata molto spesso ogni qual volta mia sorella, ma soprattutto io, ci lamentavamo di qualcosa che non ci piaceva mangiare e quindi scattava mio padre dicendoci che ci sarebbe bastata meno di 1 settimana di “tessera” per apprezzare finanche le carrube;

2) quando negli anni ‘70 ed ’80 noi bambini/ragazzi ci lamentavamo per il freddo poiché i sistemi di riscaldamento non erano efficienti, il refrain al riguardo era che “non potevamo neanche lontanamente immaginare cosa era stato l’inverno del 1944 in termini di neve, ghiaccio, freddo, gelo e quindi fame”;

3) l’ultimo dei refrain di mio padre che non dimenticherò mai riguardava Roma, dove frequentava la facoltà di medicina tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40 (mio padre era del ‘20). La città letteralmente “pullulava di spie, erano ovunque e prontissime a denunciare spesso dietro compenso alle autorità fasciste sindacalisti, socialisti, anarchici, comunisti, antifascisti ed ovviamente da un certo momento in poi anche gli ebrei”. Questo “inquinamento da spie” costò ben 2 arresti a mio padre che fu detenuto a Regina Coeli in condizioni drammatiche “tra cimici e pidocchi che non gli davano tregua né di giorno né di notte”, il confino a Bressanone in quanto antifascista militante quindi un pericolo se inserito all’interno di corpi militari combattenti.

Alfredo Grossi


Il giorno della memoria spesso ci si dimentica che i nazisti, per tutto il 1944, rastrellarono minoranze rom e sinti in tutta la Serbia. Anche per loro la destinazione era Auschwitz. Lo Zigeunerlager, il lager per gli zingari. Me lo ricordava il fisarmonicista Jovic, che ho conosciuto il giorno del mio matrimonio nel 2019. In quell’occasione mi raccontava che la musica tzigana si suona con il cuore e non con le note. Diceva che: “chi suona con il cuore quello che sente, piange”. E sentire la sofferenza è diverso dal pronunciare la parola «memoria” senza averla provata. Suo nonno gli raccontava che quando i Rom andavano alla camera a gas, dicevano: «Dai, suona l’ultima serenata». Questa è la sua memoria. Il 6 maggio 1994 le SS fecero irruzione nello Zigeunerlager per incenerire tutti i Rom. Ma loro fecero muro con i corpi emaciati, con mani disperate, erano migliaia. Seimila. Vinse la loro dignità quel giorno, e per giorni. Intanto i camini di Auschwitz incenerivano gli ebrei. La notte del 2 agosto vennero sterminati, fucilati e azzannati dai cani. Altri deportati a Dachau. Questa storia assieme alla sua meravigliosa vita è raccontata anche in un libro curato dall’artista e intellettuale ebreo Moni Ovadia. Quando l’umanità sarà pronta a considerarsi una? Nemmeno oggi, comunque.

Eleonora Padovani


Una famiglia genovese trasferitasi a fine ‘800, quando Spezia delineava il suo porto e il suo arsenale e garantiva buoni affari. Una vita tra casa e negozio, dedicata alla famiglia. Quel 25 novembre del 1944 fu arrestato senza che lui e suoi cari capissero perché. Poi seppero che pagava per aver inviato generi di sostentamento ai partigiani. Fu rinchiuso nella caserma del XXI Fanteria per poi essere trasferito al carcere di Marassi. Da qui riuscì a far pervenire sue notizie con poche righe su pezzi di carta di recupero, lettere che ho ritrovato dopo la morte di mio padre. Perché mio padre non riusciva a parlarne, aveva vissuto quel trauma dell’arresto e della scomparsa nel nulla di suo padre come un lutto di cui non si liberò più per tutta la sua vita. Anni di silenzi e depressione, il dramma di una morte che si propaga per tre generazioni. Quelle lettere parlano di un uomo preoccupato non per la sua sorte, ma per la moglie che si ritrova sulle spalle il negozio e i figli da curare e mantenere.”Se non ce la fai chiudi tutto e porta i bambini in campagna, non preoccuparti, quando torno ricominciamo.” Quando torno. Fu trasferito a Bolzano e deportato a Mauthausen dove gli fu assegnata la matricola 126164 con il triangolo rosso degli oppositori politici. Assassinato a Gusen il 7 marzo 1945.

Federico Derchi


Oggi, Giorno della memoria, vorrei tenere viva, attraverso il racconto dell’esperienza vissuta da mio padre nel corso della II guerra mondiale, la memoria di quegli eroi di una Resistenza non pubblicizzata, sottaciuta e spesso ignorata: la memoria degli Internati Militari Italiani, ossia di quei soldati e ufficiali delle Forze Armate italiane che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, vennero catturati dai nazisti e deportati nei lager in Germania e Polonia soffrendo di stenti, umiliazioni, fame e violenze fisiche e morali.

Mio padre Luciano Lollio, tenente del Regio Esercito (dico Regio in quanto questa parola è collegata ad una precisa scelta di mio padre e di altre centinaia di migliaia di militari italiani) inviato sul fronte greco, venne catturato dai Tedeschi dopo l’8 settembre, costretto a deporre le armi e, nonostante le promesse dei Tedeschi di un ritorno in Italia, venne trasportato entro treni merci sovraffollati, in condizioni pietose, nei campi di internamento nazisti, prima in Polonia (Biala Podlaska) e poi in Germania (Sandbostel, Berlin-Lichterfeld, Altengrabow), dove venne riservato ai prigionieri italiani un trattamento particolarmente umiliante, privandoli di qualsiasi tutela prevista dalle normative internazionali per i prigionieri di guerra, tra cui anche l’assistenza della Croce Rossa Internazionale, e attribuendo loro una nuova identità non contemplata da alcuna norma, quella di IMI (Internati Militari Italiani), che li sottoponeva al totale arbitrio delle autorità naziste.

Per due lunghi anni, nonostante le privazioni, le sofferenze, le vessazioni e nonostante il continuo invito sia dei Tedeschi che degli inviati della Repubblica di Salò a passare dalla loro parte e combattere per loro, uscendo in tal modo dai campi di prigionia, circa il 75% di questi coraggiosi soldati, tra cui mio padre, resistette ad ogni lusinga e preferì affrontare il progressivo deperimento fisico e psicologico tra fame, sporcizia, pidocchi, malattie e violenze, pur di tenere fede al giuramento prestato alla patria ed al Re. Erano ragazzi giovani, mio padre aveva ventitré anni quando fu catturato, ma resistettero con coraggio e con la speranza che sarebbe arrivato un futuro, facendosi forza l’un con l’altro e stringendosi in legami di amicizia indimenticabili per sopravvivere a quel destino terribile.

Il giorno inaspettato finalmente arrivò, il giorno della liberazione, il 4 maggio 1945. Ma per mio padre fu una liberazione diversa da quella narrata nelle testimonianze che si ascoltano in televisione o che vengono pubblicate. Una liberazione della quale, forse, non si deve parlare ma che io, al contrario, voglio ricordare.

Gli Italiani prigionieri del lager di Altengrabow, dove si trovava mio padre, al contrario dei prigionieri francesi, inglesi, belgi e olandesi, non furono liberati dagli Americani, attesi con tanta ansia, ma, insieme a Polacchi, Serbi e Russi, dall’Armata Rossa, proprio come accadde ad Auschwitz il 27 gennaio 1945.

Seguirono diversi mesi, da maggio a fine agosto 1945, nel corso dei quali mio padre e gli altri ex prigionieri italiani dovettero vagare, al seguito dell’esercito sovietico, attraverso percorsi impervi e difficoltosi, a piedi o approfittando di mezzi di fortuna (carretti, biciclette abbandonate), con tappe più o meno lunghe nei paesini ad est di Berlino, in alloggi di fortuna o in edifici loro assegnati dai Russi, a volte fatiscenti, nei quali ci si adattava a dormire per terra o sopra tavolacci trovati sul luogo. Mio padre ricorda anche le diverse impressioni suscitate dalle abitudini così strane e diverse diffuse tra i Russi, persone veramente particolari, descritte a tinte fosche dal regime fascista ma che, sotto certi aspetti, a volte si comportavano in modo anche simpatico e divertente.

Mio padre, deceduto nel 2008, scrisse un libro che ricordava questo particolare periodo, un libro che, nonostante la mia completa revisione e i ripetuti tentativi di trovare una casa editrice per la pubblicazione, evidentemente non è gradito nel momento attuale sul mercato editoriale, proprio perché ricorda una liberazione diversa da quella narrata nel film di Benigni, l’unica divulgata dal mainstream, nonostante si tratti di una testimonianza reale, storica, che si può forse tacere ma non cancellare.

Olga Lollio


Quando la Germania invase l’Austria, un comando generale di soldati nazisti si stabilì nella casetta di mia madre costruita da mio nonno, perché era la più bella casa del paese Haimburg. In quei giorni, erano ospiti a casa dei miei nonni una loro lontana parente, una giovane mamma con il suo bambino disabile che aveva la stessa età di mia madre, più o meno 6 7 anni. Purtroppo una mattina vennero a prenderlo dei soldati nazisti, mia mamma non capiva sentiva solo i pianti struggenti della giovane mamma e di mia nonna. Loro infatti avevano ben capito quello che stava succedendo ed infatti nessuno seppe più nulla di quel bambino che mia mamma chiamava Hansi.

Flavia Spanghero


Quella che vi voglio raccontare, anche se forse un po’ lunga e difficilmente pubblicabile, è la storia dei miei nonni e di mio padre: Roberto Abuaf Pelo, nato a Milano il 2 giugno 1935 da una ragazza madre, appena maggiorenne, straniera ed ebrea (Sefardita turca). Roberto, mancato il 1 Maggio 2021, dopo la morte dell’adorata madre, ha voluto scrivere e condividere uno struggente ricordo dell’avventurosa vita dei suoi genitori. Nonostante la sua terza media, la ritengo una delle cose più belle che abbia fatto e ancora mi rende orgoglioso… ma io sono di parte.

Aggiungo solo 3 notazioni più pertinenti con la questione ebraica. Nella primavera del 1944, dopo il ritorno a Milano, nonna (incinta delle zio) e papà vengono imprigionati per quasi 2 mesi a San Vittore, nello stesso periodo in cui furono “ospiti” anche Mike Bongiorno e Indro Montanelli). Il 10 maggio 1944 il nonno, rientrando a casa, realizza l’accaduto e decide di incidere sul muro una scritta che cancellerà solo alla fine della guerra: si adopererà in tutti i modi per liberarli. Fortunatamente, grazie anche alla intercessione di un vicino di casa, gerarca fascista ma di buon cuore, i 2 riescono a evitare la deportazione, cosa non riuscita invece ad altri parenti meno fortunati, tra cui la citata cugina prediletta che verrà poi ospitata nell’immediato dopoguerra: si tratta di Suzy Razon, moglie del Prof. Umberto Veronesi.

Nel 2013, dopo la consegna degli Ambrogini d’oro, mio padre scoprì chi era quella guardia che, durante la sua detenzione, gli passava di nascosto un po’ di semolino, piatto che, chissà come mai, continuò ad apprezzare fino agli ultimi suoi giorni di vita, e che invece forse contribuì a condannare Andrea Schivo alla deportazione. Nel luglio del 1943, il nonno, convinto antifascista (spirito libero e un po’ anarchico), sfilava fiero in piazza Duomo a festeggiare la “caduta del fascismo”.

Bruno Abuaf Pelo


Mio suocero Arnaldo Franco Bassoli sottotenente del 18° reggimento Merano fu fatto prigioniero i primi giorni di settembre 1943 ed inviato in vari campi di “lavoro” in Polonia e Germania. In quegli anni lui ha scritto con regolarità e dovizia di particolari un diario che abbiamo sempre conservato con la massima protezione, rispetto e amore. Alcuni anni fa, per paura di perdere il contenuto in quanto molte parti sono scritte a matita e su fogli di recupero, ho pensato di ricopiarlo e di ricavarne un libro di circa 300 pagine.

L’ho fatto per onorare e rispettare il dolore e le umiliazioni ricevute da un ragazzo appena ventitreenne e per testimoniare ai nostri figli e nipoti l’inutilità della guerra, il dolore che provoca nelle famiglie di questi ragazzi impotenti davanti alle decisioni di adulti irresponsabili. Mio suocero è ritornato a casa, fortunatamente, nel settembre del 1945 e ha potuto conoscere la sua primogenita nata nel frattempo.

Rita Rinaldi

Articolo Precedente

“A casa dicono ‘chi è questa?’, spieghiamolo: ho fatto un passaggio dal chirurgo”: così Jessica Morlacchi

next
Articolo Successivo

La “protesta degli ombrelli” degli operatori sanitari: “Via Carrai dalla Fondazione Meyer. Nessuna parola sul massacro a Gaza”

next