“Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura/Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura/Fu un generale di vent’anni occhi turchini e giacca uguale/Fu un generale di vent’anni figlio d’un temporale” (Fiume Sand Creek, Fabrizio De André).

Un altro anno e un’altra giornata della memoria. Sempre, costantemente legata alla Shoah. Quasi che solo quell’eccidio bisogni ricordare. Quando tutti noi lo sappiamo, anche se la storia la fanno i vincenti, quella storia è un susseguirsi continuo di eccidi e di genocidi.

Ce lo racconta bene Amitav Gosh nelle recenti pagine de La maledizione della noce moscata, dove si parte dall’eccidio dei molucchesi da parte dei coloni olandesi per potersi impadronire della preziosa noce moscata (sì, proprio quella banalissima spezia che usiamo in molte ricette). Ma se quello fu un atto barbaro del 1600, prima c’era stato almeno Hernàn Cortés (Cortez the Killer, Neil Young), c’era stato Francisco Pizarro. E poi ancora in ordine sparso i belgi in Congo, gli inglesi in Sudafrica e in tempi recenti il genocidio degli aborigeni australiani (l’ultimo eccidio nel 1928), quello dei milioni di nativi del Nordamerica, e nello scorso secolo, poco prima della Shoah, il genocidio del popolo armeno. E ancora, dopo la Shoah, i massacri di Pinochet in Cile e di Videla in Argentina, supportati dai molto democratici statunitensi. La triste storia della sopraffazione del più forte sul più debole che però quest’anno si arricchisce (si fa per dire) di un nuovo genocidio che va avanti da anni, e sempre con l’appoggio degli Usa e il colpevole silenzio dei servi occidentali: quello dei palestinesi. 23.000 palestinesi uccisi in appena tre mesi e altri 10.000 dispersi sotto le macerie. E almeno 80 giornalisti uccisi.

Domanda: dove sono i giornalisti occidentali che vedono uccisi i loro colleghi? Del resto questa è la storia che si perpetua: i forti uccidono i deboli. E va bene, facciamocene una ragione, ma per favore risparmiateci la giornata della memoria a senso unico. Almeno questo.

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