L’affettività – compreso il sesso – è un diritto in carcere e deve essere esercitato in un ambiente lontano dagli sguardi di tutti. È la Consulta, che chiamata a decidere sul caso sollevato da un detenuto del carcere di Terni, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge – la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente -, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ci siano ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Ma i giudici sono andati oltre considerando anche quello che è il trattamento dei detenuti in altri paesi europei proponendo al legislatore di intervenire per garantire quell’intimità alle persone ristrette per motivi di giustizia con “unità abitative”, piccole case all’interno degli istituti dove poter esercitare il diritto all’affettività in “un ambiente di tipo domestico domestico“.

Il caso da cui è partita l’eccezione – L’uomo, detenuto dal 2019 per tentato omicidio, furto aggravato, evasione, lamentava di non poter avere colloqui intimi con la compagna e con la figlia piccola. Un ostacolo alla sua relazione e al suo ruolo di genitore. A rimettere la questione alla Corte costituzionale il magistrato di Sorveglianza di Spoleto che “ritiene che il controllo a vista sui colloqui con il partner implichi per il detenuto «un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”.

Per i giudici sarebbe “innanzitutto leso un diritto fondamentale della persona… alla libera espressione dell’affettività, anche nella componente sessuale“, l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza)”sotto un duplice profilo, quello della ragionevolezza, per avere il divieto di intimità negli incontri familiari carattere assoluto, e quello della parità di trattamento rispetto agli istituti penitenziari minorili, all’interno dei quali” è ammesso “lo svolgimento di visite prolungate a tutela dell’affettività”. Inoltre la “forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà determinerebbe poi una compressione aggiuntiva della libertà personale del detenuto, ingiustificata qualora non ricorrano particolari esigenze di custodia, oltre che una violenza fisica e morale sulla persona del ristretto” che comporterebbe la violazione dell’articolo 13 sull’inviolabilità della persona.

“La pena non può essere contraria al senso di umanità” – “Una pena caratterizzata dalla sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto sarebbe altresì contraria al senso di umanità e incapace di assolvere alla funzione rieducativa, con conseguente violazione dell’articolo 27 della Costituzione” che prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Secondo la Consulta “l’impossibilità di coltivare in modo pieno le relazioni affettive potrebbe anche negativamente incidere sulla continuità e sulla saldezza dei legami familiari del detenuto… Ne scaturirebbe la distorsione della pena in un trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare”.

I giudici, Augusto Antonio Barbera (presidente) e Stefano Petitti (redattore), ricordano come una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità. In particolare, “l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”.

Piccole case in carcere? – La norma dichiarata illegittima, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione “per la irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla norma in scrutinio e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena”. Una sentenza questa che avrà anche ripercussioni sull’organizzazione dei penitenziari. Secondo la Corte “può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico. È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”.

“Questa Corte è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento. Il lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012 (che prevede il diritto di visita e di luoghi idonei, ndr), e dalla segnalazione che essa rivolgeva all’attenzione del legislatore, impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone. La complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore, ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario”.

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