“In Alabama non esiste misericordia per quelli come me, non sono pronto e ogni notte sogno che mi vengano a prendere per portarmi nella camera della morte”. Sono parole pronunciate da Kenneth Smith nella sua telefonata al Guardian. Smith, 58 anni, statunitense, giovedì 25 gennaio potrebbe diventare il primo condannato a morte ucciso con ipossia da azoto, metodo mai sperimentato che provoca il decesso per soffocamento. Su Smith, che nel 2022 ha già subito un tentativo di esecuzione non riuscito a causa di complicazioni tecniche, pendeva una condanna all’ergastolo per un omicidio compiuto nel 1988. Successivamente, però, un giudice ha tramutato la sua condanna in pena capitale, grazie ad una legge ora non più in vigore. “Puro e semplice accanimento caratterizzato da un’inesorabile e disumana crudeltà” ha detto a ilfattoquotidiano.it il filosofo Roberto Mordacci, professore ordinario di filosofia morale, prorettore di scienze umane e sociali presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e autore di numerosi saggi su temi etici, bioetici e di filosofia morale.

Nel 2022 si è registrato il più alto numero di esecuzioni dal 2017. In che stato di salute versa la nostra civiltà giuridica?
Il ricorso alla pena capitale è una mostruosità morale, prima ancora che giuridica. I dati del 2022 sono in chiaroscuro (si veda il rapporto di Amnesty International del 2022): le esecuzioni capitali sono aumentate del 53% rispetto al 2021, passando da 520 a 825 già solo se si contano le pene eseguite nei paesi del Medio Oriente (Iran e Arabia Saudita soprattutto) e dell’Africa del Nord (Egitto), senza contare i numeri molto misteriosi di paesi come Cina, Vietnam e Corea del Nord. Dunque, un imbarbarimento drammatico, che segna un inasprimento delle politiche repressive e violente in quei paesi. D’altra parte, il rapporto ci dice che ben sei stati nel 2022 hanno abolito totalmente o parzialmente la pena di morte (Kazakhstan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone per tutti i reati, Guinea Equatoriale e Zimbabwe per i reati comuni). Più di tre quarti dei paesi del mondo hanno abolito la pena di morte legalmente o nei fatti. Resta scandaloso che in un paese come gli Stati Uniti, che pretende di essere un paese “civile” sul piano giuridico, ancora 27 Stati prevedano la pena capitale, benché 14 di questi non la pratichino di fatto da almeno 10 anni. Sotto questo profilo, l’Europa – dove la pena di morte è stata abolita in tutti gli Stati, con l’unica eccezione della Bielorussia – si trova in condizioni migliori.

Nel caso di Smith vi è un accanimento contro un uomo già sopravvissuto ad un tentativo di esecuzione. Tutto ciò come si sposa con il concetto di giustizia?
Non si sposa affatto. È intrinseco all’idea di giustizia un concetto non retributivo ma educativo della pena. Significa che non si punisce come vendetta sociale contro il reo, ma che si limita la sua libertà per impedire che possa colpire ancora e si mira a ricostruire un’identità sociale compatibile con il diritto. La ripetizione dell’esecuzione su Kenneth Smith è puro e semplice accanimento. In un’epoca più ingenua si sarebbe considerata la mancata esecuzione come un segno. Qui invece la crudeltà è sistematica, meccanica, inesorabile. L’elemento di umanità è negato deliberatamente. E una giustizia non umana non è giustizia. Resta che le istituzioni dovrebbero pensare al sistema penale come un luogo in cui ci si pone la domanda: come è potuto succedere? In che cosa il nostro ordine sociale ha fallito? È vero che il criminale ha la responsabilità ultima dei suoi gesti e anche una società utopica ha i suoi delitti, come infatti succede anche nell’Utopia di Thomas More. Ma anche qui, la domanda è come evitare che succeda ancora, per quanto possibile.

La politica potrebbe intervenire per evitare questo epilogo ma non sembra intenzionata a farlo. Ricerca del consenso o volontà di dare l’immagine di un potere determinato a raggiungere i suoi scopi ad ogni costo?
La politica ha completamente perso la visione sociale, l’idea di società da perseguire, l’obiettivo verso cui muoversi. Serva dei sondaggi quotidiani, ondeggia come un drappo senza nessun ancoraggio. Ora, poiché il vento in questo momento è generato da una morbosa fascinazione popolare per politiche “dure”, “forti”, identitarie e anche vendicative (si veda l’occupazione sistematica degli spazi del potere), l’esito è che ogni scelta politica è un’esibizione di muscoli. L’ONU ha meritoriamente promosso, dal 2007, una moratoria universale, che ha avuto buoni effetti: l’ultimo testo, il sesto, è stato approvato nel 2016 con 117 voti a favore, 40 contrari e 31 astenuti. Però tutto dipende dall’autorevolezza dell’ONU e bisogna constatare che in questo momento storico tale autorevolezza è molto bassa.

Il 90% delle esecuzioni avviene in soli tre stati del Medioriente (Iran, Arabia Saudita ed Egitto). Qui ci troviamo negli Usa, faro della democrazia. Che effetti può avere agli occhi del mondo?
Come detto, il fatto che gli Stati Uniti pratichino ancora la pena di morte è una profonda contraddizione morale per una cultura che si proclama civile. Fornisce un alibi a coloro che non condividono l’evoluzione “illuminista” del diritto di tradizione europea (ricordiamo che le migliori argomentazioni contro la pena di morte furono scritte da Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene del 1764, in pieno illuminismo). E indebolisce in generale l’autorevolezza della cultura occidentale. Anche in seno agli organismi internazionali, chiedere il rispetto dei diritti umani mentre ancora si pratica la pena di morte è francamente risibile. La leadership americana, già in declino, è resa più debole dal mantenimento della pena di morte.

Smith sembra destinato ad andarsene con la maggiore sofferenza possibile. Come dovrebbe agire una politica che tuteli le nozioni di rispetto e dignità come pilastri di un ordinamento carcerario?
Il rispetto è più che il semplice riconoscimento della dignità intrinseca delle persone. È, nella concretezza delle dinamiche sociali, la regola non scritta delle relazioni di potere. Se non riconosco che l’altro ha nella sua libertà un potere indipendente, che non posso totalmente controllare, perdo la possibilità di associarmi con l’altro, di fare cose che solo insieme potremmo fare. E anche il reo, se l’unico modo di trattarlo è sopprimerlo, non ha l’occasione, la possibilità di usare la sua libertà diversamente, in modo da riscattarsi. Una pena sensata mira a rendere le persone di nuovo capaci di usare bene la propria libertà. Distruggerla è solo la proclamazione di una definitiva sconfitta.

Una delle tesi in sostegno della pena capitale è l’effetto deterrente, ma i dati sembrano dimostrare altro. Perché negli Usa è così difficile portare avanti una riflessione sul tema?
I dati dimostrano che il più alto tasso di omicidi avviene nei paesi che prevedono la pena di morte. Come sempre Beccaria aveva intuito, non è l’intensità della pena ma la sua certezza a fare da deterrente. E nel caso della pena capitale è semplicemente ovvio che l’uso della crudeltà da parte dello Stato non può che dare l’impressione di “legittimare” la violenza nei comportamenti sociali. Lo Stato deve tenersi il più lontano possibile dalla violenza e dall’uso della forza: come diceva Hannah Arendt, dove c’è il potere, ossia la capacità di agire “di concerto”, non è necessaria la forza e anzi quest’ultima finisce per erodere e consumare il potere. La cultura americana è uno strano mix di liberismo radicale e concezione repressiva del diritto, in cui raramente fa breccia una visione solidale. Forse per questo resiste il mito della pena capitale come simbolo dell’ordine politico.

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