Come si cambia per governare. Ce ne eravamo già accorti in tante occasioni. L’ultimo dietro front di Giorgia Meloni sulle privatizzazioni lo conferma. Sei anni fa l’attuale presidente del Consiglio tuonava contro la vendita di quote di Poste italiane, oggi si appresta a metterne sul mercato almeno un altro 10% per racimolare uno o due miliardi di euro. Nel gennaio del 2018 a palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni e al ministero dell’Economia Pier Carlo Padoan (oggi presidente di Unicredit) che, a loro volta, stavano valutando la cessione di una parte della partecipazione in Poste.

Dai microfoni di radio Rtl così parlava Meloni: “La privatizzazione di Poste italiane sarebbe una follia e su questo tema chiederò al centrodestra di dire una parola chiara. Parliamo di 140 mila dipendenti, di 13 mila sportelli aperti sul territorio, di 500 miliardi degli italiani raccolti a vario titolo come risparmio e di un assoluto gioiello che è stato già privatizzato per il 35% dai governi PD e di sinistra e un altro 35% è stato trasferito in cassa depositi e prestiti, rimane nella disponibilità del tesoro un 30% che dicono di voler privatizzare. Con la sua presenza capillare sul territorio Poste italiane costituisce un presidio dello Stato, tra i pochissimi ancora aperti in luoghi come i comuni montani, le periferie degradate, i territori difficili: chiudere gli sportelli vorrebbe dire togliere ai cittadini un punto di riferimento di servizi dello Stato. Inoltre bisogna ricordare che Poste raccoglie la gran parte delle provviste di cassa depositi prestiti. È l’unica banca rimasta pubblica, io non vorrei che la sinistra volesse liberarsi di poste per liberarsi anche dell’unica banca rimasta pubblica e continuare a fare gli interessi delle banche private”.

Di governi sotto i ponti ne sono passati quattro ma la quota di Poste (30% al Tesoro e 35% a Cassa depositi e prestito che sempre Stato è) sta sempre lì. Ma ora c’è da governare e Meloni e Giorgetti devono trovare soldi, a maggior ragione dopo che Bruxelles ha di nuovo sposato la linea del rigore sui conti. Così si lavora ad un nuovo piano di privatizzazioni che dovrebbe portare nelle casse pubbliche 20 miliardi in tre anni. Quote di Eni, di Terna e, appunto di Poste Italiane. La società vale oggi in borsa 13,3 miliardi di euro, il 10% equivale quindi a 1,3 miliardi, il 20% (massima quota su cui si ragiona per la vendita), fino a 2,6%. Lo stato potrebbe vendere un altro 15% riuscendo comunque a mantenere la maggioranza assoluta. Il problema è che, come ricordava Meloni qualche anno fa, le aziende si vendono una volta sola e lo stato si arricchisce nell’immediato ma si impoverisce nel lungo termine. Anche perché più la quota che si vende è alta, maggiore è la parte di dividendi a cui si rinuncia. Nel 2023 il solo Tesoro ha ad esempio incassato da Poste una cedola da quasi 250 milioni di euro.

Meloni però tenta di rassicurarci perché adesso, con lei al governo: “Non si tratta di privatizzare per privatizzare, di dismettere o di svendere, come ho detto l’impostazione di questo governo è lontana anni luce da quanto visto purtroppo accadere in passato quando le privatizzazioni” sono state “regali miliardari a qualche ben inserito e fortunato imprenditore, quello non aveva niente a che fare con il libero mercato ma piuttosto” a quanto accaduto “con gli oligarchi russi quando si è dissolta l’unione sovietica”. Sarà.

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