E’ un’Aula vuota quella che lunedì 22 ha iniziato l’esame del disegno di legge di ratifica del protocollo siglato con Tirana lo scorso novembre per la creazione di due centri per migranti sul suolo albanese, ma sotto giurisdizione italiana.
Il governo non ha mai voluto il voto parlamentare sull’accordo. Anzi, ha provato a negare il dettato costituzionale che lo impone a tutte le intese con nuovi oneri per le finanze, modificazioni di legge e interventi sulla giurisdizione, tra l’altro. Che ci fosse parecchio da nascondere emerge dal passaggio in commissioni riunite Affari costituzionali e Affari esteri alla Camera, che ha costretto l’esecutivo di Giorgia Meloni a scoprire le carte e ad ammettere che i costi dell’operazione sono esorbitanti a fronte di un numero di migranti decisamente esiguo, soprattutto rispetto alle dichiarazioni iniziali. Non ultimo, la Corte costituzionale albanese, tirata in ballo dai partiti di opposizione, non si è ancora pronunciata sulla legittimità dell’accordo e forse non lo farà prima di marzo. Eppure si procede e il protocollo arriva in Aula per iniziare la discussione, poi rinviata a un’altra seduta. Durissime le opposizioni, dal Pd ad Avs, da Iv al M5s, che hanno definito l’accordo “disumano, illegittimo, per lo più impraticabile ed estremamente costoso”, come ha sintetizzato il segretario di +Europa Riccardo Magi.

Alla fine governo e maggioranza hanno dovuto accettare che il Parlamento discutesse l’accordo firmato da Meloni e dal collega albanese Edi Rama. Ma non per questo ha accettato il confronto e gli emendamenti proposti dalle opposizioni durante i lavori in commissioni riunite sono stati tutti respinti, anche quando si trattava di aggiungere un presidio sanitario che garantisse un supporto psicologico ai reclusi, ma anche agli operatori italiani impiegati nei due centri. O quando si proponeva di assicurare la presenza di un ufficio del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. La maggioranza si è rifiutata anche di precisare le tutele per le persone vulnerabili. Nemmeno la richiesta di sottoporre i futuri rinnovi dell’accordo al voto parlamentare, per poterne valutare i risultati, è stata accolta. Così il protocollo arriva alla Camera il 22 gennaio praticamente inalterato e viene discusso davanti a un’Aula praticamente vuota, nonostante le polemiche e gli strali dei mesi scorsi. Del resto, accusa il deputato di +Europa Benedetto Della Vedova “è nient’altro che uno spot per la campagna elettorale di Giorgia Meloni alle europee”.

Nondimeno, i lavori hanno permesso di andare oltre al vago e spesso ambiguo testo del protocollo. A partire dai costi, che il governo ha dovuto declinare, a partire dalla realizzazione delle strutture, fino alle spese per il personale italiano, dalle forze dell’ordine al personale dei ministeri, che dovrà essere impiegato nell’hotspot e nel centro per i rimpatri previsti dall’accordo. Dati alla mano, salta fuori che nei primi tre anni si prevede di spendere quasi 700 milioni di euro, a fronte dei 53 milioni di euro spesi in quattro anni (2018-2021) per tutti e dieci i centri per il rimpatrio (Cpr). E tuttavia sono conti parziali, perché ancora non è possibile stimare quanto ci costerà trasportare avanti e indietro il personale e gli stessi migranti: quelli che una volta arrivati non saranno considerati idonei al trattenimento per motivi sanitari, perché vittime di abusi, torture, tratta o perché magari la loro domanda di protezione internazionale sarà accolta e, come da accordi, andranno immediatamente trasferiti in Italia per l’accoglienza.

Un sacco di soldi, dunque, presi anche dagli accantonamenti di ministeri come quello dell’Università (20 milioni di euro) e della Cultura (4 milioni) e del Turismo. “In barba a qualunque forma di controllo, con affidamenti diretti, appalti e subappalti? Non si sa”, sottolinea in Aula il deputato del Pd Toni Ricciardi, che denuncia anche lo spostamento di un contingente di 500 uomini delle forze dell’ordine che andranno spostati in Albania. Al contrario i migranti trattenuti nei due centri saranno pochi. Non saranno più di 3.000 al mese gli stranieri trasferiti in Albania dopo essere stati soccorsi in acque internazionali nel Mediterraneo dalle sole navi militari italiane. E questo perché, ha detto lo stesso governo durante i lavori in commissioni riunite, nei centri albanesi andranno solo maschi sani e provenienti dai Paesi d’origine che l’Italia considera sicuri, che significa tunisini e marocchini perché gli accordi sul rimpatrio con paesi terzi extra Ue sono pochissimi. Esclusi, come ha precisato il governo interrogato in commissioni riunite, tutti i vulnerabili: “minori, donne, disabili, anziani, genitori single con figli minori, persone malate, vittime di tratta, vittime di stupri, violenza psicologica, fisica, sessuale, vittime di mutilazioni genitali”. Quindi tutti coloro che oggi partono dalla Libia e non solo. Inoltre, il turnover che secondo calcoli del governo dovrebbe permettere di arrivare almeno ai 36mila trattenimenti l’anno, potrebbe essere velocemente ridimensionato dalla realtà, viste le difficoltà a rispettare i 28 giorni entro i quali andranno processate le richieste di protezione internazionale.

Non ultimo, la questione dei diritti e della compatibilità con la normativa europea perché a sottoscrivere l’accordo è un Paese membro. “Il governo avrebbe dovuto rivolgersi alla Corte di giustizia della Ue per un parere preventivo, prima di compiere errori facendo trattati che incrociano il diritto dell’Unione”, ha detto Magi di +Europa in Aula. Tesi respinte dalla maggioranza, convinta che il Albania non si porrà nemmeno il problema del rispetto dei diritti dei migranti lì trattenuti, che, denunciano ancora le opposizioni in Aula, “compiranno un salto dalla condizione di naufrago a quella di detenuto, in colonie dove sarà addirittura adibita una colonia penale”. “Una Guantanamo“, l’ha definita il Movimento 5 stelle. Dagli screening a bordo delle navi, al diritto alla rappresentanza legale, i rischi di violare diritti resta alto. Perché l’Italia dovrà dimostrare di essere in grado di assicurare le stesse condizioni che potrebbe garantire se tutto avvenisse in territorio nazionale. Nel 2018, dovendosi esprimere sull’ipotesi di “Trattamento esterno delle domande di asilo e/o della procedura di rimpatrio in un paese terzo”, simile a quella contenuta nell’accordo con l’Albania, “la Commissione europea ha evidenziato che, in uno scenario siffatto, l’applicazione extraterritoriale del diritto UE “is currently neither possible nor desirable”: non è attualmente né possibile, né desiderabile“, hanno ricordato alcuni giuristi auditi in commissioni riunite, come ricordato in aula dalla deputata M5s Federica Onori.

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