Sull’accordo con l’Albania ci sono poche certezze. Una di queste riguarda la necessità di un passaggio parlamentare. Lo dice Paolo Bonetti, docente di Diritto costituzionale all’Università Bicocca di Milano. Quanto alla questione dei tempi di trattenimento nei centri previsti dal protocollo, dipende. Il presidente albanese Edi Rama parla di 28 giorni e così ha fatto il Viminale, salvo poi essere corretto da Palazzo Chigi che parla addirittura di 18 mesi. Alla fine è la premier Giorgia Meloni a precisare che saranno fatte entrambe le cose. “Al momento si può dire tutto e il suo contrario, ma stando al testo del protocollo e considerate le norme europee – avverte il costituzionalista – alcune ipotesi sono percorribili, altre decisamente meno”.

Professore, il governo non è intenzionato a sottoporre l’accordo con l’Albania all’approvazione del Parlamento.
Quanto previsto nel protocollo tra Italia e Albania comporta oneri per le finanze, esigerà modificazioni di legge, interviene sulla giurisdizione e l’accordo ha sicuramente natura politica. Tutte ipotesi che l’articolo 80 della Costituzione prevede passino da una legge di autorizzazione alla ratifica approvata dal Parlamento. In caso contrario c’è una palese violazione della Costituzione. Davvero, basta leggere l’articolo 80 che è chiarissimo.

Si dice però che l’accordo ne attui uno precedente.
È fuorviante. L’accordo tra Italia e Albania del 1995, che fu sottoposto a ratifica, si limita a prevedere la collaborazione sulla questione migratoria e l’articolo 19, a cui fa riferimento il governo, prevede uno specifico accordo sugli ingressi del lavoro stagionale degli albanesi. Non c’entra nulla col tema di oggi. E in ogni caso qualunque nuova intesa che preveda modifiche di legge, giurisdizione e oneri finanziari deve passare dall’autorizzazione parlamentare alla ratifica, c’è poco da fare.

Rama assicura che i migranti non resteranno nei centri italiani in Albania per più di 28 giorni. Palazzo Chigi dice fino a 18 mesi e corregge anche il Viminale. Poi Meloni precisa: “L’uno e l’altro”.
Conta il testo dell’accordo, per quanto vago e ambiguo. Si parla di “procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea”. Se si tratta di procedure di frontiera, possiamo pensare che non si parli solo delle semplici procedure di identificazione, ma che si intenda appunto l’esame delle domande di protezione internazionale presentate da cittadini di Paesi che l’Italia considera sicuri o che hanno presentato la richiesta nelle cosiddette zone italiane di frontiera stabilite per legge. In questo caso, quello del trattenimento disposto dal questore nei confronti del richiedente per le procedure di frontiera finalizzate all’esame della domanda d’asilo, non si possono superare le quattro settimane. Ma l’ipotesi potrebbe essere incompatibile con le norme europee.

Cosa prevede la normativa europea che il protocollo richiama?
L’Unione europea disciplina la procedura di esame delle domande di protezione internazionale presentate sul territorio degli Stati membri. Ed espressamente non riguarda eventuali domande presentate fuori dal loro territorio. Il che non vuol dire che gli Stati membri non possano prevederle. Si è espressa in merito la Corte di giustizia europea, stabilendo che non esiste l’obbligo per gli Stati membri di rilasciare visti di ingresso per motivi umanitari a chi fa richiesta di protezione internazionale, ma che rimane una facoltà di ogni Stato europeo. Sia chiaro però che non è questa la condizione indicata nel protocollo, dove le persone sembrano essere in condizione di ristretta libertà personale. Non si tratta di persone che si presenteranno lì spontaneamente, ma portate e trasportate in Albania dalle autorità italiane, dopo che hanno chiaramente presentato domanda in Italia o sulle navi militari italiane che per legge sono territorio dello Stato.

Quindi non si pone il problema della presentazione della domanda all’estero, piuttosto quello del suo esame fuori dal territorio italiano. È vietato?
La direttiva Ue prevede che chi si trova nel territorio degli Stati membri e ha presentato domanda di protezione non ne può essere allontanato durante l’esame della stessa. Questo è il principale problema, perché se come abbiamo detto le procedure per l’esame delle richieste di protezione devono svolgersi su territorio italiano, allora è chiaro che questi centri debbano essere destinati ad altro.

Cioè?
Per esempio all’esecuzione dell’espulsione di chi non ha presentato domanda di protezione. Il rimpatrio che esegue l’espulsione o il respingimento va eseguito con accompagnamento immediato alla frontiera, effettuato previo trattenimento disposto dal questore e convalidato, nel caso del richiedente, dal tribunale. Il tutto entro 4 giorni. Con le ultime modifiche introdotte dal governo, questo tipo di trattenimento dura 90 giorni, prorogabili fino a 18 mesi. Una differenza abissale con i 28 giorni del trattenimento ai fini dell’esame della domanda.

Parliamo di un Centro di permanenza per il rimpatrio.
Potrebbe trattarsi di un Cpr da 3.000 posti – unica cifra indicata dal protocollo – destinatario non di richiedenti asilo o di persone sbarcate in Sicilia, ma di chiunque in Italia abbia ricevuto un provvedimento espulsivo che non è stato eseguito. Il protocollo non lo esclude. Dunque un immenso centro come fu quello di Mineo, che di persone ne teneva 1.500, dove si può rimanere fino a 18 mesi. Ancora una volta, il testo si limita dire “procedure di frontiera e rimpatrio”. Considerate le limitazioni delle norme Ue, possiamo dire tutto e il suo contrario. Che si tratti di un grande hotspot? Ma per chi? Per le persone soccorse nello Ionio? Forse per gli sbarcati in Puglia? Lasciamo da parte le dichiarazioni politiche e le interviste e atteniamoci al testo del protocollo per quanto, ad ora, sembri una grande scatola da attivare a seconda del bisogno e per cose diverse. Perché non essendo auto-applicativo necessita di una successiva intesa, che lo stesso accordo prevede, e dell’emanazione di norme nazionali già annunciate dalla Presidenza del Consiglio.

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