Mi piace andare al cinema. Non parlerò dei film che non mi piacciono, anche perché non li guardo, ma ce ne sono due, gli ultimi due che ho visto, che hanno soddisfatto tutta la gamma delle mie aspettative. Prima, però, devo fare una premessa. Al liceo, negli anni Sessanta, partecipavo all’organizzazione dei cineforum: Bergman, con Liv Ullman che guarda intensamente Max Von Sydow, entrambi col travaglio interiore, e Einsenstein, con carrozzine che scendono le scale e armate che rovinano allo spaccarsi del ghiaccio. Roba così. Con il dibattito, ovviamente. Paolo Villaggio, di Genova pure lui, deve aver attraversato momenti analoghi e li ha esorcizzati con la cagata pazzesca con cui ha definito uno dei capolavori del cinema di tutti i tempi.

L’overdose di intimismo e angoscia mi portò all’estremo opposto: per diversi anni un film non era visibile se non c’era almeno una sventagliata di mitra o, comunque, una sparatoria. Per diversi anni il mio eroe è stato John Wayne, e so ripetere le battute di molti film che lo vedono eroe. Ombre rosse è il viaggio in diligenza di un banchiere che fugge dalla città con i soldi rubati ai risparmiatori, di una prostituta, Dallas, scacciata dalla stessa città da un comitato di madamine capitanato dalla moglie del banchiere. E poi c’è lui, Ringo, fuorilegge suo malgrado, e una serie di altri personaggi per me mitici, primo tra tutti Buck, il cocchiere, impersonato da Andy Devine (a cui il mio amico Frank Zappa dedicò una canzone), e il medico ubriacone, che ruba il campionario al rappresentante di alcolici, e il giocatore d’azzardo, che protegge la giovane donna, per giunta incinta. Ovviamente arrivano gli indiani, e poi arrivano i nostri, e il film si conclude con la sparatoria in cui Ringo uccide i cattivi che lo avevano incastrato, il banchiere viene arrestato, e il fuorilegge e la prostituta coronano il loro sogno d’amore.

Un’invettiva contro il perbenismo, per me. Per quel che ne so, John Ford per la prima volta muove la macchina da presa assieme alla diligenza: alcune scene sono girate da lontano, e la diligenza attraversa il campo. Ma in altre siamo lì anche noi, a fianco della diligenza, o mischiati nella banda di indiani. Non smetterei mai di guardarlo, assieme a Sentieri Selvaggi.

Ma veniamo a ora. Ho visto Perfect Days, di Wim Wenders, e ho avuto di nuovo 17 anni, prima della crisi di rigetto per questo tipo di film. Sapevo di che si trattava, e amo i film di Wenders, da Paris Texas a Il Cielo Sopra Berlino. Restate fino alla fine, perché dopo i titoli di coda (che comunque non mi perdo mai) c’è una nota su una parola giapponese che in italiano non esiste e che definisce la luce che passa attraverso le foglie degli alberi. Anche la colonna sonora mi ha riportato al periodo del cineforum. Non è roba da nostalgici, datemi retta. Va visto.

Come antidoto sono andato a vedere, il giorno dopo, The Beekeeper, con Jason Statham. I film di Statham sono un po’ come quelli di Liam Neeson, e di altri tipacci tipo Stallone. Ci sono tanti cattivi e lui, da solo, li ammazza tutti. Spesso in modo artigianale, a mano o usando cose che gli capitano tra le mani, tipo un computer portatile. La storia riguarda gli informatici truffatori di vecchiette, che chiedono la password per sanare un disguido e, una volta avutala, svuotano il conto della vittima. Sono cose che avvengono davvero. Questi, però, derubano la vecchietta sbagliata e… La parte finale è sorprendente, e quindi non ve la racconto: ha una sua morale che richiama la possibilità che con i soldi si riesca ad arrivare molto in alto e richiama scenari che potrebbero diventare veritieri tra non molto. Non voglio dire altro.

Questi film possono avere risvolti di lettura che altri film esprimono con il ditino alzato, facendo la morale. Robocop, ad esempio, denuncia le conseguenze nefaste delle privatizzazioni di settori strategici. Lo si può fruire al livello del puro intrattenimento di botte da orbi e sventagliate di mitra, oppure si può cogliere qualcosina di più. Il film non ti ci porta, ma ti permette di arrivarci.

L’affermarsi dell’intelligenza artificiale ci conduce al mondo delle macchine di Terminator, con i computer che prendono il potere e si sostituiscono agli umani che li hanno creati. Storia analoga a Blade Runner, con i cattivi che, in effetti, sono le vittime. Schiavi artificiali che cercano la libertà e l’ultimo muore con un gesto di generosità, con tanto di chiodo conficcato nella mano, per salvare l’umano che lo deve terminare. Per me Roy è un Gesù di plastica, con tanto di colomba bianca che vola in cielo dopo la sua morte (ovviamente lo Spirito Santo).

The Beekeeper è stato vietato ai minori, in Usa, perché c’è uso di droghe, turpiloquio e mutilazioni. Se queste cose vi danno fastidio non andatelo a vedere, però lo consiglio caldamente agli altri. Da zoologo non potevo non amare la metafora dell’alveare attaccato dai calabroni, e anche l’eliminazione della regina da parte delle api, se non svolge per bene il suo ruolo di comando. La prescrizione è: prima Wenders e poi, come antidoto, Statham. Wenders è consigliabile anche in lingua originale, perché il suono del giapponese non può essere reso dal doppiaggio. Se nessuno dei due dovesse piacervi, vi autorizzo a prendermi a pernacchie nei commenti.

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