L’obiettivo è identico: costruire forni elettrici e decarbonizzare l’acciaieria. Il protagonista privato è lo stesso: ArcelorMittal. Diverso invece l’attore pubblico: da una parte c’è l’Italia con una promessa da 2,3 miliardi di euro e dall’altra la Francia che garantisce 850 milioni. E diametralmente opposto è il risultato: da un lato, il colosso franco-indiano investe cifre a nove zeri; dall’altro se ne va e pretende anche 400 milioni.

I piani smascherati – La storia dell’investimento congiunto tra Mittal e lo Stato francese sull’acciaieria di Dunkerque smaschera i piani del socio di Acciaierie d’Italia su Taranto, facendo cadere tutte le scuse accampate fin qui per giustificare l’addio all’ex Ilva con tanto di gran cassa politica, dal ministro delle Imprese Adolfo Urso fino al leader di Azione Carlo Calenda, che ha suonato addosso alle scelte prese durante i governi Conte. Scudo penale abolito? Patti traditi? Oppure nella fuga dalla Puglia c’entra il vecchio sospetto che l’acquisto dell’Ilva sia stato mirato a bloccare l’inserimento di un concorrente nel mercato europeo, senza alcun reale interesse al rilancio delle acciaierie tarantine?

L’intesa con Parigi: 850 milioni pubblici – I termini dell’intesa sono stati resi noti domenica dal ministro dell’Economia Bruno Le Maire, riconfermato da Gabriel Attal nel neonato governo francese: ArcelorMittal dovrebbe investire oltre un miliardo e lo Stato impegnare fino a 850 milioni per costruire a Dunkerque, che è considerato uno dei 50 siti industriali francesi più inquinanti, due forni elettrici e un’unità diretta per la riduzione del ferro. Una decarbonizzazione. Entrata in funzione degli impianti “green”? Nel 2027, con un calo delle emissioni di Co2 che viene stimato in 4,4 milioni di tonnellate all’anno.

La fuga da Taranto – A fronte di un supporto statale di 850 milioni di euro, quindi, ArcelorMittal si è impegnata a investire circa un miliardo di euro. Il tutto quasi in contemporanea con l’uscita da Acciaierie d’Italia, la società di cui detiene il 62% che gestisce l’ex Ilva di Taranto insieme alla pubblica Invitalia (38%). La storia è nota: Mittal si rifiuta di partecipare a qualsiasi rifinanziamento pro-quota. Lo scorso lunedì ha detto no perfino all’iniezione di 320 milioni di euro per garantire la sopravvivenza dell’ex Ilva, alle prese con centinaia di milioni di euro di debiti con i fornitori di gas che ora hanno ottenuto il via libera del Tar Lombardia alla chiusura dei rubinetti.

La firma di settembre: 2,3 miliardi europei – Mittal va via dopo aver portato Taranto ai minimi storici di produzione, che nel 2023 – lo ha riferito il ministro Urso nell’aula del Senato – si è fermata sotto i 3 milioni di tonnellate di acciaio sfornate. E se ne va nonostante lo scorso settembre abbia firmato un memorandum of undestanding con il ministro per gli Affari Europei, Raffaele Fitto, che prevedeva investimenti pubblici per 2,3 miliardi finalizzati a decarbonizzare l’ex Ilva. Impegni per il socio privato? Non chiariti. Aveva svelato tutto Il Fatto Quotidiano: il testo è stato firmato lo scorso 11 settembre da Fitto per conto del governo, mentre l’ad Lucia Morselli lo ha sottoscritto per conto di Acciaierie d’Italia e Henk Scheffer e Ondra Otradovec hanno dato il via libera in quota Mittal.

Tutte le promesse italiane – Con quelle cinque pagine, i firmatati hanno concordato “un piano di investimenti di decarbonizzazione aggiornato e potenziato e individuato i relativi finanziamenti pubblici di supporto”. Il piano – da finalizzare entro il 2030 – costa 4,6 miliardi e il governo si è impegnato a mettercene 2,27. Cioè circa il triplo di quanto promesso dallo Stato francese per Dunkerque. Da dove avrebbe preso i fondi l’Italia? Nell’ambito del Repower Eu o, in subordine, sempre in Europa con i soldi destinati a Sviluppo e coesione (Fsc). Il resto, tra l’altro, non sarebbe arrivato da Mittal ma proprio da Acciaierie d’Italia, partecipata al 38% da Invitalia, che è controllata dal ministero dell’Economia. Proprio come Parigi con la fornitura di energia nucleare, anche il governo italiano aveva promesso una stabilità con l’impegno di dare energia elettrica “a prezzi competitivi”.

La solita litania – Quell’intesa – che non piaceva a Invitalia e a Urso – è stata in ogni caso letteralmente stracciata da Mittal nel giro di due mesi. Il colosso franco-indiano si è rifiutato di sottoscrivere qualsiasi aumento di capitale nell’immediato e lunedì ha dato il definitivo benservito al governo in un incontro a Palazzo Chigi. Urso ha immediatamente puntato il dito contro i patti parasociali sottoscritti, durante il governo Conte 2, da Mittal e Invitalia definendoli “leonini”. Ed è tornato a sventolare un vecchio cavallo di battaglia: tutto è iniziato con l’abolizione dello scudo penale, decisa dal Conte 1. Lo stesso refrain proposto da Carlo Calenda, l’uomo che assegnò l’Ilva ad ArcelorMittal. “Come volevasi dimostrare – ha scritto – I Cinque Stelle hanno fatto saltare un accordo blindato e vantaggioso (4,2 miliardi) per entrare in società con Mittal in minoranza e con patti parasociali gravemente penalizzanti”. Chiaro il riferimento all’abolizione dello scudo penale, utilizzo da Mittal come grimaldello per tentare una prima fuga nel 2019.

Il vecchio sospetto – Lo scudo è stato poi ripristinato lo scorso anno eppure oggi Mittal ha intenzione di andare via ugualmente nonostante il vantaggioso piano proposto da Fitto a settembre, assai più ricco di quello di Le Maire e senza impegni diretti per i franco-indiani poiché il resto sarebbe toccato ad Acciaierie d’Italia. E così sembra tornare di moda la tesi sempre sostenuta dai detrattori di Mittal e rilanciata più volte dal presidente dei senatori Pd, Francesco Boccia. In una recente intervista a Ilfattoquotidiano.it, l’ex ministro aveva ricordato: “Il timore è che l’operazione sia nata più per bloccare quote di mercato dell’ex Ilva che per investire nella produzione di acciaio in Italia”. Il complesso industriale, aveva aggiunto Boccia, è stato dato a una multinazionale che “aveva decine di stabilimenti in Europa, altra cosa sarebbe stata fare dell’ex Ilva la principale base operativa in Europa di un gruppo con inequivocabili radici italiane”.

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