Esistono infinite argomentazioni di natura etica per dichiararsi a priori contro la guerra, però, ammesso e non concesso di dover prescindere da questa dimensione e di adottare un punto di vista cosiddetto pragmatico, è allora necessario cimentarsi con la logica del “costo/beneficio”, soppesando quali siano i mali che la guerra può evitare e quali quelli che può provocare.

Tra i danni diretti ed immediati vanno poi sempre inclusi i crimini di guerra che inevitabilmente coinvolgono, seppur in diverse proporzioni, sia aggressori che aggrediti. Le Convenzioni di Ginevra che pretendono protezione dei civili e trattamento umano dei prigionieri sono sempre state sistematicamente violate. Stupri e altre crudeltà indicibili sono la norma e le strutture sanitarie sono sempre più bersaglio deliberato, favorito oggi dalla tecnologia dei droni. Ipocrita sarebbe scandalizzarsi per quando accade.

L’attacco alla salute come principale strategia di guerra è stato anche oggetto di un recente articolo sulla rivista medica Lancet (Spiegel PB et al, The war in Ukraine 1year on: the need to strategise for the long-term health of uktainians, vol.401, issue 10377, february 25, 2023). Se i morti e i feriti che si generano in un conflitto sono difficili da stimare per il deficit informativo che intrinsecamente subentra con la guerra, distorto per altro dalla propaganda militare che ne approfitta a piene mani, i danni sanitari e ambientali indiretti che si accumulano a breve e medio-lungo termine sono ancor più difficilmente calcolabili, ma un dato è certo, cioè che sopravanzano di gran lunga quelli diretti, tanto da costituirne un multiplo. Inoltre, questi si prolungano ben oltre il conflitto, come dimostra l’incremento della mortalità associato agli effetti indiretti che perdura anni dopo la cessazione delle ostilità.

Uno studio pubblicato sulla rivista BioMed Central (M Jawad et al. Estimating indirect mortality impacts of armed conflict in civilian populations: panel regression analyses of 193 countries, 1990–2017, BMC medicine, 2020), i cui risultati sono stati per altro confermati anche da ricerche successive, valuta che per ciascuna morte in guerra ogni 100.000 abitanti si associa un aumento della mortalità civile pari quasi al doppio. La metodologia di analisi utilizzata è molto complessa, ma la consistenza dei risultati ottenuti consente di raggiungere conclusioni affidabili. In estrema sintesi, l’incremento (pre/post conflitto) di frequenza relativa delle patologie trasmissibili (es. infezioni), che coinvolgono soprattutto i bambini in età prescolare, è del 22.6%, mentre per quelle non trasmissibili, che coinvolgono soprattutto gli adulti anziani, è del 3.4%, sostenuto soprattutto da patologie cardiocircolatorie, diabete, tumori e malattie dell’apparato digerente; per le cause violente (es. autolesionismo e violenza interpersonale) l’incremento di frequenza relativa è del 10.9%. Dietro queste percentuali ci sono milioni di persone.

I meccanismi che producono danni alla salute hanno innanzitutto a che fare con una deprivazione alimentare che, a propria volta riconosce diverse cause: inagibilità dei terreni agricoli, distruzione dei depositi alimentari e delle reti di trasporto, razzie degli alimenti, impennata dei prezzi, embarghi, malnutrizione da carenza, aggravata da contaminazione delle acque e malattie, danneggiamento delle strutture sanitarie che comporta crollo dell’assistenza, indisponibilità di farmaci e vaccini. Alla questione alimentare si aggiunge poi l’inquinamento chimico conseguente alla distruzione delle industrie, la dispersione sui terreni di ordigni inesplosi, nonché la distruzione di posti di lavoro e l’interruzione dei percorsi educativi che vanno ad aggravare le diseguaglianze sociali preesistenti. Non da ultimo i migranti in fuga da guerre e violenze che ormai coinvolgono milioni di persone, con un rapporto di 1/100 abitanti della Terra. A questi si aggiungeranno vieppiù i migranti climatici a causa della progressiva inospitalità di ampie aree del Pianeta.

Solo per citare alcuni eventi più recentemente studiati (Pirous Fateh-Moghadam, Guerra o Salute, Il Pensiero scientifico Editore 2023), si stima che circa un terzo della superficie dell’Ucraina è disseminato da mine o bombe inesplose. Oltre la metà dei tetti di questo Paese sono fatti di materiali contenenti amianto, il cui utilizzo in Ucraina è stato vietato soltanto nel 2017, e quindi disintegrati per effetto dei bombardamenti che ne hanno consentito l’aero-dispersione. Il mancato drenaggio dell’acqua nelle miniere carbonifere del Donbass ha favorito la penetrazione nei terreni, e quindi nelle falde acquifere, di metalli pesanti e di altre sostanze tossiche, che comprometteranno per decenni la salubrità dei territori. L’emissioni di gas serra in atmosfera provocate da questa guerra sono sovrapponibili all’incirca a quelle di un anno di un Paese come la Grecia.

L’uranio impoverito, metallo molto più denso dell’acciaio, utilizzato sia per colpire che per proteggere le corazze dai colpi d’arma da fuoco, rilascia in aria durante l’impatto polveri radioattive che possono essere inalate o ingerite. Mix di sostanze chimiche possono produrre alterazioni sistemiche dell’organismo note come Sindrome del Golfo perché evidenziate e studiate durante questa specifica guerra. Più lontano nel tempo il ricordo della diossina utilizzata come defoliante nella guerra in Vietnam. Per non dire del rischio da esplosione nucleare verso il quale la soglia di accettabilità si sta progressivamente abbassando (l’atomica tattica).

Si ricordi poi il bombardamento di Belgrado del 1999 che colpendo un’industria chimica liberò una nube di Cloruro Vinile Monomero (CVM), un cancerogeno tristemente noto al Petrolchimico di Marghera, quello del depuratore di Baghdad durante la guerra del Golfo del 1990 che fece gettare direttamente a fiume i reflui di una città di 5 milioni di abitanti. La distruzione bellica in corso sulla Striscia di Gaza offrirà ulteriore occasione di valutare danni diretti e indiretti della guerra.

Il citato autore Pirous Fateh-Moghadam ricorda ancora quanto sia grande l’impatto del militarismo anche in tempo di pace per mantenere pronta, aggiornata ed efficiente l’intera macchina bellica. E questo non solo in termini di costi, e quindi di risorse sottratte al welfare, che ormai in Europa puntano al 2% del Pil, ma anche di consumo ambientale in senso stretto. Si pensi che un aereo F-16 consuma in un’ora il carburante utilizzato in un anno da un automobilista americano.

Ce ne sarebbe abbastanza per impegnarsi a prevenire la guerra in quanto evento che non compare di certo all’improvviso, come insegna quanto accade in Ucraina e nella Striscia di Gaza, ma anche a farlo cessare quanto prima, perché se la reazione temporanea ad un’aggressione è legittimata dalla Carta delle Nazioni Unite, non lo è invece mai quando questa diventa guerra di logoramento che rischia, come in Afghanistan, di restituire paradossalmente dopo vent’anni la situazione politica pre-bellica. Ne valeva la pena in termini di costo/benefico, anche volendo prescindere dall’etica? La guerra è antica quanto il mondo ed è stata coesistente alla schiavitù. Ma se è stata sconfitta l’una perché non potrebbe esserlo anche l’altra?

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