Quella di Stefan George (si pronuncia all’incirca ghe-ór-ghe) (Büdesheim 1868 – Minusio 1933) è ancora oggi una figura assai controversa per le sue posizioni politiche esplicitamente antimoderne in nome del culto della bellezza e del glorioso passato germanico (anche se fuso con l’antichità classica) che indussero i nazisti a tentare di farne una voce ascoltata e prestigiosa a loro favore; intorno a George si raccolse un gruppo di giovani intellettuali che vedevano in lui il proprio maestro spirituale – il poeta abbandonò la Germania per la Svizzera quando Hitler ebbe conquistato il potere e il suo silenzio rispondeva all’aristocratico disprezzo per ogni sorta di volgarità e compromissione con la modernità, ma è anche vero che da lui non venne mai una chiara presa di distanza dal Nazismo.

George fu un profondo conoscitore della lingua e della poesia tedesche, oltre che poliglotta (tradusse anche ampi passi della Commedia dantesca) e probabilmente vanno cercati e apprezzati soprattutto i testi in cui l’amore (anche omosessuale) è cantato con stile elegantissimo e toni accesi e appassionati e i componimenti nei quali marcata è la sensibilità nei confronti del trascolorare delle stagioni o viene rappresentato il sogno di mondi ed epoche governati dal culto della bellezza e dell’arte squisita e raffinata.

Propongo i primi due testi tratti dalla raccolta Eliogabalo (1892) nella quale George, dando voce all’imperatore romano, rappresenta il proprio mondo poetico raffinato e colmo di simboli; il terzo, tratto dal libro L’anno dell’anima (1897), è esempio del tema ricorrente del giardino, luogo d’incontri amorosi e di meditazione; il quarto proviene dal Settimo anello (1907) ed esprime l’amore per Friedrich Gundolf, membro del George-Kreis e insigne studioso di Goethe e di Shakespeare; l’ultimo (anch’esso leggibile nel Settimo anello) omaggia Karoline von Günderrode, scrittrice romantica morta suicida sulle rive del Reno.

A. D.

Il mio giardino non desidera né aria né calore -·
il giardino che ho coltivato da solo
e gli esanimi stormi dei suoi uccelli
non hanno visto ancora nessuna primavera.

Di carbone i tronchi, di carbone i rami
e bui i campi lungo lo scuro pendio;
i pesanti frutti mai còlti
risplendono come lava nella pineta.

Un grigio bagliore da una grotta nascosta
non rivela se s’appressi l’alba o la sera
e le dense nebbie degli oli di mandorla
si librano su aiuole e spiazzi erbosi e sulla seminagione.

Ma come posso, sacro, generarti
– così domandavo quando riflettendo lo misuravo,
nelle ardite tessiture della sofferenza lo dimenticavo –
buio grande nero fiore?

***

Lì sul letto di seta
invidioso mi evitava il sonno –
ma non portatemi indovini,
non voglio cullanti canti
di fanciulle dalla terra attica
(pure, lune addietro, essi mi piacquero).
Ora avvolgetemi nelle vostre catene,
flautisti del Nilo.

Giacevo negli spazi dell’etere,
mangiavo pane celeste –
cantavate la fuga dai mondi,
cantavate della morte gloriosa
prima che sulle brucianti palpebre
cadesse finalmente il sonno.
Allontanatevi e uccidetemi di nuovo,
flautisti del Nilo.

***

Passeggiamo avanti e indietro nel colmo rigoglio
del viale dei faggi quasi fino all’ingresso
e guardiamo fuori dalla cancellata nei campi
il mandorlo per la seconda volta in fiore.

Cerchiamo panchine senz’ombra
lì dove voci estranee non ci scacceranno;
nei sogni le nostre braccia s’intrecciano,
ci ristoriamo al lungo tenue lucore,

siamo grati come a quieto mormorio,
dalle cime arboree tracce di raggi gocciano su di noi
e guardiamo e ascoltiamo se di tanto in tanto
i frutti maturi cadono come bussando alla terra.

MAREE
Quando i miei desideri ti corteggiano,
soffrendo ti nuota attorno il mio respiro;
è un toccare, aver fame, affliggersi, allora
nel giorno che lentamente si spegne
sembra che un rozzo abbraccio prema
il giovane flessibile albero,
come se fredde dita scivolassero
su guance di solare peluria.

Ma se le ombre si chiudono piú fitte,
il pensiero teneramente ti guida.
Allora diventano preziosi i suoni e le luci,
allora sul nostro cammino è come se
la notte scuotesse i suoi riccioli
da dove fugge un vortice di stelle,
come se fossimo circonfusi e guidati
e cullati da fiocchi sonanti.

Sogni e racconti m’hanno sollevato
cosí in alto che ogni peso s’è dissolto,
mi hanno portato a te i sogni, le lacrime
versate per altri, per te, per me…
Ora quest’anima preferisce diventare
per amor tuo la pallida ferita che sopporta,
ora la mia bocca estingue la sua
divorante febbre nella tua bocca fiorente.

Per oggi lasciaci parlare soltanto di argomenti stellari!
Vorrei esultare, ma sono pallido di meraviglia;
l’allievo della saggezza decifra l’enigma dei Veda
e rompe la notte della cecità con un tratto del dito;
con inconsapevole grazia un bimbo porta dall’eden
un gioiello piú prezioso di qualunque regno.

WINKEL: TOMBA DELLA GÜNDERODE
Sei stata la grazia di quelle terre leggendarie:
hai spento insieme con te qui, sulla riva erbosa,
il loro incontenibile fuoco, la luna e il baluginare
degli spiriti…
Una barca galleggia, vuota, sul Reno notturno.

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