Una vera e propria guerra interna quella che si è aperta in Ecuador, con un epicentro chiaro, la provincia del Guayas e la sua capitale Guayaquil. Il presidente neo eletto Daniel Noboa ha confermato con un decreto urgente lo stato di “conflitto armato interno”, dichiarando obiettivi militari 20 organizzazioni segnalate come le più facinorose e sanguinarie nel complesso e articolato tessuto della criminalità del paese sudamericano.

Le immagini terribili di funzionari di polizia presi come ostaggi nelle carceri e poi uccisi di fronte alle telecamere, di autobombe, delle incursioni armate nelle università e in una emittente televisiva aprono uno scenario di caos istituzionale che rende ancora più palese una realtà che gli analisti e i propri abitanti dell’Ecuador conoscono da tempo: le autorità statali non hanno il controllo del territorio.

La miccia che ha fatto esplodere questo nuovo ciclo di violenza radica nello stato di eccezione (formula usata in Ecuador per dichiarare lo stato di emergenza nazionale) dichiarato da Noboa lunedì 8 gennaio per 60 giorni: azione presa dal Presidente dell’Ecuador dopo la fuga dal carcere del capo della banda criminale ”Los Choneros”, all’anagrafe Adolfo Macías, conosciuto come “Fito”.

Si tratta però della cronaca di una guerra annunciata quella che in queste ore sta riempiendo le pagine dei giornali di tutto il mondo, una guerra che in modo silente, con vampate come i massacri nelle carceri degli ultimi anni e l’omicidio del candidato presidenziale Fernando Villavicencio avvenuto il 9 agosto 2023 (rivendicato dall’organizzazione criminale “Los Lobos”), ha caratterizzato il paese sudamericano del post-Correa (presidente in carica fino al maggio 2017). Sì, perché per coloro che non seguono con costanza e attenzione le vicende della regione potrebbe sembrare strano e addirittura incomprensibile come in un Paese come l’Ecuador, che ha sempre presentato disuguaglianza e importanti indici di povertà ma mai tassi di violenza a questi livelli, sia “improvvisamente” scoppiato il caos. La chiave sta proprio in quell’improvvisamente, che in realtà nasconde un lungo e complesso processo di lotte interne tra bande rivali che risale all’entrata dei cartelli messicani nel “mercato ecuadoriano”. Come segnala da anni il portale specializzato Insight Crime, le bande ecuadoriane agiscono ormai come intermediari dei cartelli maggiori, come quello messicano di Sinaloa e di Jalisco Nueva Generación, essendo il paese sudamericano il porto principale di uscita verso l’Europa e l’America Centrale per il 50% della coca prodotta in Colombia. Si parlerebbe di quantità enormi (dati 2021) che si aggirano intorno alle 500 tonnellate complessive di cocaina all’anno.

Lo stesso “Fito” ad esempio non sorge dal nulla: la sua leadership è figlia delle lotte interne per la successione al potere dopo la morte nel 2020 del capo storico dell’organizzazione, Jorge Luis Zambrano González, alias “Rasquiña”. Rasquiña era dal 2007 il capo della banda “Los Choneros” (nome che proviene dalla città costiera di Chone dove il gruppo criminale si formò nel 1998), avendo assunto la guida del gruppo a seguito dell’uccisione del suo fondatore, Jorge Véliz (alias “Teniente España“) e sotto il suo comando le principali bande del paese avevano raggiunto una specie di accordo federativo. L’obiettivo di Raquiña era offrire ai cartelli messicani (che hanno assunto un enorme protagonismo in America del Sud dopo la disgregazione delle Farc – Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) un paese sotto il controllo della criminalità, dove ognuno giocava il suo ruolo, compresi le autorità corrotte, per far passare il maggior carico possibile di droga dal porto di Guayaquil, il vero terreno di scontro e di potere.

Come appena scritto, uno dei momenti cruciali per spiegare la violenza che oggi vediamo in Ecuador è la disgregazione della Farc dopo gli accordi di pace in Colombia del 2016. Quest’organizzazione, che ha mantenuto per più di 50 anni una guerra contro il governo colombiano, aveva anche assunto il controllo della produzione della cocaina e delle rotte del narcotraffico in Colombia, e attraverso una ramificazione capillare controllava enormi spazi di territorio, proiettando la sua influenza anche sull’Ecuador. Basicamente possiamo dire che mentre esisteva la Farc non esisteva spazio vitale per altri attori del crimine organizzato in Ecuador, giacché la guerriglia colombiana non era un avversario da prendere alla leggera. Dopo la smobilitazione delle Farc si è aperta una grossa breccia, nonostante in Colombia alcuni gruppi armati, sotto il nome di “dissidenze della Farc”, abbiano mantenuto il controllo di alcuni territori, per l’inserimento di altri interessi e altre leadership nel mercato del narcotraffico.

E’ in questo ambito che l’alleanza tra i cartelli messicani e la bande locali ecuadoriane sono “fiorite”, nella totale inazione e a volte complicità della autorità locali, come dimostrato dal famoso caso dell’ex capitano dell’intelligence ecuadoriana Telmo Castro: storia che nel 2019 mise in luce la magnitudine del coinvolgimento degli apparati governativi ad alti livelli con gli attori del narcotraffico. Una complicità resa oggi patente con il “caso metastasi”, indagine che parte dalle intercettazioni telefoniche dal carcere del narcotrafficante Leandro Norero, conosciuto come ‘El Patrón’. La morte di Zambrano (2020) coincide con il costante indebolimento dell’apparato pubblico, che dopo Rafael Correa ha visto le esperienze fallimentari di Lenin Moreno e Guillermo Lasso, che hanno preceduto l’attuale presidente Noboa.

In tutto questo, non da sottovalutare, un aumento esponenziale della circolazione di armi di piccolo e grosso calibro in mano alla bande criminali dell’Ecuador, “risorse” che arrivano in grandissima parte dagli Stati Uniti attraverso il Messico, in un traffico circolare che vede implicato anche lo “Zio Sam” e la sua politica di liberalizzazione della vendita di armi: gli stessi Usa che oggi si dicono preoccupati e offrono aiuto a Noboa.

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