Christiana Figueres era un po’ la “padrona di casa” alla COP21 di fine 2015. Dove si raggiunse il celebre Accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni di gas serra e il contenimento del riscaldamento globale. O, per essere più esatti, dell’ebollizione globale (global boiling), come ha preso giustamente a chiamarla il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres. Alla COP21 Figueres guidava infatti UNFCCC, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, in qualità di Segretario esecutivo, carica che ha ricoperto dal 2010 al 2016.

Si ricorda una dichiarazione di Figueres in cui affermava che il movimento globale del “fossil fuel divestment“, che chiede il disinvestimento dalle fonti fossili di energia nella prospettiva della lotta alla crisi climatica, è stato il principale motore di successo per i negoziati sul clima alla COP21. Basterebbe questo per dire dell’importanza cruciale di questo movimento, che mira a togliere al business delle fossili la cosiddetta “social license to operate”, la licenza sociale a operare, cioè l’accettabilità a livello sociale.

Va specificato in particolare che il fossil fuel divestment non ha nulla ma proprio nulla di ideologico, al contrario di quello che per ignoranza o più spesso per malafede viene detto dai suoi detrattori. Prima la campagna e poi il movimento per il disinvestimento dalle fossili, partiti dai campus universitari statunitensi e diffusisi poi a macchia d’olio fra gli investitori istituzionali di tutto il mondo, hanno infatti preso le mosse dalle analisi del think-tank finanziario non profit britannico Carbon Tracker e in particolare dai concetti di “carbon bubble” (bolla del carbonio) e “stranded assets” (attivi incagliati, o non recuperabili), esposti in molteplici studi a partire da quello storico del 2011 “Unburnable Carbon: Are the World’s Financial Markets Carrying a Carbon Bubble?”.

Si aggiunga che mesi fa sempre Figueres, che di negoziazioni con BigOil ha evidentemente un’esperienza profonda, prolungata e maturata ai massimi livelli – verosimilmente unica, in sintesi -, ha detto che non crede più alla buona fede delle società dell’oil&gas di voler contribuire alla transizione ecologica, alla decarbonizzazione. In vista della prevedibilmente deludente COP28 in Dubai, che nel suo documento finale è riuscita solo a partorire il topolino della vaghissima formula “transitioning away from fossil fuels” invece di affrontare l’elefante nella stanza statuendo l’urgentemente necessario “phase-out” di tutte le fonti fossili, in un articolo pubblicato su Al Jazeera, Figueres ha ammesso che si sbagliava a credere che BigOil potesse cambiare. Ed è una presa di posizione che, proprio sapendo da chi viene, può essere legittimamente considerata come il definitivo, inappellabile de profundis per chi crede o più probabilmente ha interesse a far credere che ci sia un futuro per il business delle fossili e quindi anche per gli investimenti nelle fossili, per i quali anche la questione ormai è quella della loro social license. Detto in altri termini: è ancora accettabile investire in fonti fossili? Quando il mondo sa per certo che bisogna consegnarle alla storia il prima possibile per (provare a) evitare gli impatti più catastrofici della crisi climatica?

No, non è accettabile, ha compreso e affermato da un pezzo un numero prepotentemente crescente di grandi e influenti investitori istituzionali di tutto il mondo. Perché “if it’s wrong to wreck the climate, it’s wrong to profit from that wreckage” (se è sbagliato distruggere il pianeta, è sbagliato trarre profitto da tale distruzione), per dirla con il motto che fin dall’inizio la campagna per il divestment ha utilizzato.

Così il fossil fuel divestment proprio a fine anno scorso, nei giorni della fine ingloriosa della COP28, ha toccato nuovi clamorosi record. Gli investitori istituzionali internazionali aderenti al disinvestimento dalle fonti fossili hanno superato la quota di 1.600 e soprattutto l’ammontare complessivo dei loro asset gestiti è arrivato a superare i 40 trilioni di dollari (40mila miliardi di dollari). Una grande massa di soldi che non verrà più investita in ciò che ha causato e continua ad alimentare la crisi climatica. Forse non definitiva, ma comunque una spallata potente, rumorosa e globale alla social license di BigOil. Che sa bene che i suoi giorni sono segnati ma sta facendo di tutto per ritardare la fine. Il fossil fuel divestment, invece, vuole e può accelerarla.

Articolo Precedente

Neve, che tristezza le settimane bianche solo per ricchi

next
Articolo Successivo

Appennini senza neve, le immagini sconfortanti da Campo Felice (Aquila). E gli impianti di sci restano chiusi

next