Se sei un albero a Milano sai di avere le ore contate, o quanto meno di essere un soggetto ad alto rischio di annientamento. I momenti più pericolosi sono le mattine dei giorni festivi o semifestivi, quando gli attivisti votati alla difesa dell’ambiente e del suolo permeabile sono meno numerosi in città: è in quel lasso di tempo che partono ruspe e motoseghe, rigorosamente scortate dalla polizia, e, a volte senza neppure un’autorizzazione legale, fanno fuori gli alberi più contesi.

È una procedura utile a mettere i movimenti davanti al fatto compiuto, a spezzare il fronte delle lotte contro la speculazione e il consumo di suolo: beh, ormai il danno è fatto, che lottate a fare? Chi vi segue più? Come diceva il Marchese del Grillo, e prima di lui Giuseppe Gioacchino Belli, “Io so’ io, e voi non siete un *****”. È successo così per gli alberi del Parco Bassini (2 gennaio 2020), per i pioppi della Goccia in Bovisa (20 marzo 2020, in pieno lockdown), per gli 80 esemplari della caserma Montello (27 dicembre 2022), per il glicine di Baiamonti (20 luglio 2023, uno dei giorni più torridi di un’estate mostruosa) e ora per il Bosco di via Falck (27 dicembre 2023) – dove però gli attivisti del Comitato sono riusciti per il momento a bloccare il taglio al sesto albero, su 30 previsti.

Provo a mettermi nei panni di uno di questi alberi milanesi: uno di quelli belli alti, maestosi, dotato di ampie radici che affondano bene nel terreno di un parco o di un’area ai margini della città o nella prima periferia trascurata da decenni. Intorno a lui altre piante, più o meno fitte e più o meno autoctone, altri alberi, animali vari tra cui rari esemplari di esseri umani un po’ freak, magari qualche vecchia fabbrica o capannone che casca a pezzi, quasi pittoresco.

Fino a qualche tempo fa si beava dell’indifferenza umana, compatendo i poveri cugini nelle piazze e nei viali più centrali periodicamente torturati e scempiati da potatori avidi e incompetenti, quotidianamente calpestati dai suv parcheggiati sulle loro radici o innaffiati dai liquidi acidi degli ubriachi nelle notti di movida. Per non parlare dei disgraziati neonati piantati in pompa magna dentro un cubetto di cemento e lasciati seccare senza pietà grazie al greenwashing dei programmi di riforestazione urbana, o di quelli installati sui balconi dei grattacieli, drogati con sostanze iper performanti, fissati con i cavi per resistere ai venti e rimossi senza pietà al minimo segno di cedimento estetico.

Ora le sorti si sono invertite. Col nuovo regime, nessuno lascia più in pace gli altochiomati. Nelle aiuole o nei parchi li abbattono con la scusa che sono pericolosi perché malati – tanto poi chi va a verificare che in realtà stavano benissimo? L’importante è evitare responsabilità e costi di manutenzione. Ma peggio va a chi si trova in uno spazio ex-industriale rinaturalizzato. È proprio in questi luoghi che si verificano le stragi peggiori, motivate da una ragione imprescindibile: la bonifica.

Il percorso logico è incredibilmente contorto. 1) Le attività industriali hanno inquinato il terreno, su cui negli anni è cresciuta una vegetazione fittissima – questo lo stato dei fatti. 2) Per proteggere gli uomini, è imprescindibile provvedere a una bonifica costosissima, che prevede la distruzione degli alberi, la rimozione del terreno e il trasporto in discarica. 3) Per pagare i costi esorbitanti è necessario cedere almeno metà dell’area ai privati e fargli costruire edifici in abbondanza, in modo che possano accollarsi le spese guadagnandoci dieci volte tanto e contemporaneamente restituire un’immagine dell’area come “rigenerata”.

La selvatica fierezza del nostro albero ad alto fusto di periferia lascia il posto a un senso di terrore misto a invidia per i fratelli addomesticati, vagamente più al sicuro nei recinti dei parchi centrali.

Questa idea che colare cemento sia il modo migliore di risanare l’ecosistema – il suolo e l’aria, persino l’acqua – è entrata così a fondo nel discorso generale che gli ultimi boschi presenti nella città a più altro consumo di suolo in Italia sono indicati, a dispetto della loro azione depurativa, come minaccia e degrado, mentre la regola che accomuna la progettazione dei nuovi parchi urbani è essenzialmente il verde su cemento.

Dalla Biblioteca degli alberi al parco dello scalo Porta Romana, da piazzale Loreto al progetto di copertura dei binari di Cadorna, dal Bosco Verticale al Bosconavigli, sembra che gli alberi e le piante debbano crescere solo su soletta: sui tetti delle case e dei centri commerciali (green roof), su vecchi cavalcavia (highline o “bosco sospeso”), su stazioni o garage sotterranei con griglie, su balconi e pareti. Basta che non pretendano di occupare gratis del buon terreno adatto alla rendita.

Photo credit: Comitato popolare per la difesa del bosco di via Falck

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