Ci sono libri che con la loro chiarezza non scadono mai, perché la loro attualità sta nell’analisi con strumenti di lettura universali della realtà anche se il tempo scorre. Uno di questi libri è stato scritto nel (apparentemente) lontano 1982 dalla studiosa, scrittrice e attivista femminista Andrea Dworkin, che così ne ringraziava un’altra per esserne stata la scintilla: ”Questo libro deve la propria esistenza a Gloria Steinem: è stata sua l’idea di ampliare un saggio precedente, Safety, Shelter, Rules, Form, Love: The Promise of the Ultra-Right, apparso su Ms. (giugno 1979), fino a trasformarlo in un volume. Ringrazio Gloria non solo per l’idea, ma anche per avere insistito sulla sua importanza”.

Nelle cinque parole del saggio pubblicato dall’autorevole mensile femminista Usa sta la chiave per capire molto del tempo nel quale noi viviamo: della fascinazione di gran parte dei popoli europei per il nazionalismo, del consenso, anche a sinistra, verso il relativismo culturale e, infine, del benestare femminile verso la destra politica e ideologica, che oggi in Italia ha nella prima ministra una antesignana di spicco (prima donna in questo ruolo, che ricopre negando di nominarsi donna mentre lo esercita, in una torsione simbolica degna di sforzi che andrebbero meglio riposti).

Sicurezza, riparo, regole, modello, amore: ecco i cinque concetti messi sotto la lente nel libro della Dworkin Donne di destra – la politica delle donne addomesticate, tradotto e pubblicato dalla casa editrice femminista Vanda con la preziosa introduzione di Stefania Arcara e Deborah Ardilli.

Le cinque parole, secondo Dworkin, sono le pietre miliari simboliche sulle quali si costruisce l’adesione, delle donne in particolare, al pensiero e alla politica della destra, specialmente nei passaggi di crisi cruciale come questa che stiamo attraversando. Ogni essere umano ha bisogno di vivere potendo contare su livelli accettabili di sicurezza e riparo, come ha necessità di condividere con altri esseri umani regole e modelli di comportamento e, infine, ha bisogno di amore e di amare. Ma quando alcuni di questi bisogni e condizioni sono minacciati, ecco che si riduce lo spazio per la negoziazione e si rischia di cadere nella trappola del consenso cieco a chi, promettendo protezione in primis, la fornisce al prezzo della diminuzione della propria libertà, quella individuale così come quella collettiva.

Per raccontare e spiegare a fondo il meccanismo che induce le donne a dare consenso alla destra politica, Dworkin analizzò il fenomeno della prostituzione e della pornografia, che indagò per decenni dopo una dolorosa parentesi di vissuto personale, concludendo che “Quello che i pornografi hanno fatto è stato prendere la libertà sessuale per cui avevamo lottato e trasformarla in un’industria orientata al profitto, che fornisce prodotti, incentrata sull’odio per le donne”.

Come sostengono Arcara e Ardilli nell’introduzione al testo occorre, anzitutto, disporsi a riconoscere che se la destra familista e antiabortista manipola con successo le paure delle dominate, al punto da rendere allettante un’insidiosa offerta di protezione, è perché fa leva su paure realmente fondate: non in un comparto separato dell’inconscio femminile, e nemmeno in un’indole naturalmente timorosa, ma nella situazione concreta delle donne all’interno della società patriarcale.

Le donne di destra «non hanno torto», sostiene ripetutamente Dworkin. Non hanno ragione, ma ciò non significa che siano in preda all’obnubilamento totale. Presa isolatamente, e letta maliziosamente, l’affermazione «non hanno torto» può suonare come una rovinosa concessione ideologica al conservatorismo. Ricollocata all’interno del suo contesto argomentativo, rimanda alla tragedia della salvezza ricercata attraverso la propria distruzione, sotto un imperativo di sopravvivenza che riduce severamente i margini di manovra e le possibilità di fuga.

Le donne di destra trattano la dipendenza domestica come un privilegio da difendere, anziché come una forma di sfruttamento da abolire, perché sanno che l’accesso al mercato del lavoro retribuito, per le donne, non è sinonimo di indipendenza economica, ma di segregazione occupazionale, di paghe basse, di esposizione alle molestie, di doppia giornata lavorativa.

Si sottomettono a un marito, e guardano con orrore alla promiscuità sessuale, per non essere sottomesse a tanti uomini: per contenere come possono, nei limiti di una sola relazione, l’invasione sessuale moltiplicata a livello esponenziale dal modello prostituente. Ripiegano sul corporativismo materno e sulla difesa oltranzista della specificità femminile, a cui sono disposte a sacrificare ogni altro diritto, perché non trovano altre vie praticabili per vedere riconosciuto il proprio valore.

Intuiscono che, al di fuori dell’utilità sessuale e procreativa, la società patriarcale ha in serbo per loro qualcosa di molto simile alla morte sociale. Avvertono come il frutto di un’ambizione illecita per il loro sesso i benefici dell’emancipazione di cui talvolta hanno fruito, ed espiano la colpa mettendosi al servizio dell’antifemminismo militante. Detestano l’aborto, a cui la sessualità che non controllano ha costretto anche molte di loro, e proiettano sulle altre donne che hanno abortito un’immagine di indegnità.

Trovano il lesbismo una mostruosa deformazione dell’ideale di Donna Totale che si sforzano di incarnare. Vivono sotto assedio, come tutte. Cercano di assicurarsi l’esistenza e di limitare i danni, come tutte. E come molte delle donne che deplorano, e da cui sono a propria volta disprezzate, tendono a fare di necessità virtù.

Dworkin in questo libro ci consegna verità politiche che travalicano i decenni e danno manforte alla lucida analisi del contesto patriarcale globale: Per raggiungere un unico standard di libertà umana, e uno standard assoluto di dignità umana, il sistema delle classi di sesso dev’essere fatto a pezzi. La ragione è pragmatica, non filosofica: niente di meno potrà funzionare. Anche se tutti vorrebbero fare di meno, fare di meno non libererà le donne.

Uomini e donne di orientamento liberale si chiedono: “Perché non possiamo semplicemente essere noi stessi, tutti esseri umani a partire da ora, senza indugiare sulle ingiustizie passate? Non sarebbe una sovversione del sistema delle classi di sesso, un cambiamento da cima a fondo?”. La risposta è: no. Il sistema delle classi di sesso ha una struttura; ha radici profonde nella religione e nella cultura; è fondamentale per l’economia; la sessualità è la sua creatura; per essere “semplicemente esseri umani” al suo interno, le donne dovrebbero nascondersi ciò che accade loro in quanto donne, per il fatto di essere donne – cose come il sesso forzato e la riproduzione forzata, cose che continueranno fino a quando il sistema delle classi di sesso resterà operativo.

La liberazione delle donne implica la presa d’atto della loro condizione reale, per cambiarla. “Siamo semplicemente persone” è una posizione che impedisce di riconoscere le crudeltà sistematicamente inflitte alle donne a causa dell’oppressione sessuale. La coscienza fondamentale del fatto che le donne sono una classe con una condizione comune – in cui la sorte di una donna è sostanzialmente legata alla sorte di tutte le donne – rafforza la teoria e la pratica femminista. Quella coscienza fondamentale è un test di serietà quasi insostenibile. Non esiste femminismo autentico che non abbia al centro la disciplina temprante della coscienza di classe di sesso: sapere che le donne condividono una condizione comune in quanto classe, piaccia o meno.

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