In questi giorni di festa il consumismo è quella coperta corta che non riesce a mascherare la realtà degli incontri che ci aspettano ai pranzi e ai cenoni. Incontri con parenti poco o mai incontrati, con i giudizi pesanti e i sorrisi di circostanza. Quando va bene. Perché quando va peggio il conflitto si propaga come un’onda. Gli sguardi diventano urla e, purtroppo, qualche volta violenza. Ci ricordiamo, per esempio, che la maggior parte delle violenze avviene in famiglia?

No, nelle pubblicità di Natale non c’è niente di tutto questo. La verità dei rapporti umani non serve per vendere.

È un peccato che a questa gravità sfuggiamo, quasi sempre almeno. Perché a cercar bene un antidoto c’è. Si chiama dialogo. Ma di un tipo specifico, un dialogo che sia utile a tenere le porte aperte precisamente con chi non vuole dialogare.

È facile praticare il dialogo con chi vogliamo bene, molto meno con chi ci spaventa o ci ha fatto del male. Eppure è proprio qui che è possibile sperimentarne la potenza sconcertante.

È di questo che tratta un libro di Jakko Seikkula, autore del libro Il dialogo guarisce, ma perché?. Un libro di cui ho discusso di recente con Marco Braghero, ricercatore e promotore delle pratiche dialogiche in Italia e non solo. Il dialogo non è semplicemente uno scambio di parole; è un processo di guarigione, di recupero, di accettazione. Attraverso di esso possiamo trasformare il nostro modo di vedere la malattia, il disagio soprattutto nei momenti difficili.

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzano a velocità folle, il dialogo ci riporta a immergerci nelle relazioni umane. Se nel momento della difficoltà ci fermiamo un attimo e ci chiediamo: cosa posso fare di utile, qui e ora? La risposta più potente e pratica ed efficace è: mettersi in ascolto. Di se stessi e dell’altro.

La potenza del dialogo dipende dall’ascoltare le domande senza interrompere l’altro. Se ci proviamo può accadere, come scrive Buber, che “il cuore tremerà” ma può anche succedere che quel muscolo inizi a vibrare, non di paura, ma di amore, magari.

Non è detto che accada, ma è impossibile non provarci, come sostiene Braghero, a tenere aperte le porte del dialogo proprio con chi non vuol dialogare.

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