Joe Biden finisce l’anno con il peggior indice di popolarità mai registrato da un presidente Usa in età moderna. Secondo un sondaggio Gallup, solo il 39% degli americani approva il suo operato. Nessuno dei suoi predecessori ha fatto peggio. Donald Trump finì l’anno precedente l’elezione per un eventuale secondo mandato (che poi non ci fu) con un indice di popolarità del 45%. Barack Obama nel 2011, prima di essere rieletto, aveva il 43%. Persino il debole e deriso Jimmy Carter nel 1979, prima di perdere la sfida con Ronald Reagan, aveva un indice migliore: il 54%. Biden fa peggio di tutti e rischia grosso alle prossime Presidenziali. Il suo rivale più probabile, Donald Trump, lo sopravanza in tutti i sondaggi. L’ultimo Reuters/Ipsos di inizi dicembre dà il tycoon avanti di due punti.

Preoccupato per un declino che pare inarrestabile, furibondo per quello che i suoi collaboratori non starebbero facendo, il presidente ha riunito il suo team elettorale alla Casa Bianca (lo raccontava, lo scorso 18 dicembre, il Washington Post). Chi ha partecipato alla riunione narra la furia e lo stupore di Biden che non riesce a capire come i numeri in crescita dell’economia non diano una spinta altrettanto forte alla sua popolarità. Si è spesso detto, nel passato, che era l’inflazione a preoccupare gli americani. Ma l’inflazione ora è sotto il 3%. E si è spesso detto che era l’incertezza sul lavoro a nutrire l’inquietudine. Ma il mercato del lavoro è in piena espansione e, soltanto nel mese di novembre, l’economia Usa ha creato quasi 200mila nuovi posti di lavoro. Ancora: l’emergenza Covid è stata superata, la brutta figura del ritiro dall’Afghanistan non se la ricorda più nessuno e le due guerre in corso non sono davvero in grado di orientare il giudizio su un presidente (la politica estera non è mai stata in cima alle preoccupazioni degli americani). Quanto all’immigrazione, l’attuale presidente ha più o meno confermato gran parte delle misure approvate da Trump ed è ora pronto a discutere con i Repubblicani un ulteriore giro di vite al confine meridionale.

Di qui la furia e lo stupore di Biden. Se le cose non vanno poi così male, perché il suo gradimento resta pateticamente basso? Perché gli americani continuano a voltargli le spalle? Non è dato sapere quali siano state le risposte fornite dal team che lo segue in campagna elettorale. E cosa verrà fatto per cercare di ridare un po’ di smalto alla sua figura. È però possibile avanzare qualche ipotesi – in particolare tre – che aiutano a ragionare sull’impopolarità di Biden. La prima affonda nella sua storia. Biden è impopolare oggi, ma Biden non è mai stato un politico davvero popolare. Certo, per 36 anni è stato senatore del Delaware. Ma pochi, al di fuori del Delaware (peraltro il secondo Stato più piccolo dell’Unione), hanno registrato la sua presenza e anche il lungo mandato. Più che per l’appassionata militanza progressista, si è caratterizzato per la capacità di padroneggiare procedure del Senato ed equilibri di potere tra i Democratici. La sua campagna presidenziale del 1988 si concluse ingloriosamente sotto una caterva di accuse di plagio (dall’aver copiato cinque pagine da una rivista di legge per la sua tesi all’aver rubato intere parti di discorsi di Neil Kinnock e Robert Kennedy). L’altra campagna presidenziale, nel 2008, finì quasi subito, dopo un modesto quinto posto nei caucus dell’Iowa.

Pochi lo ricordano oggi, ma Barack Obama scelse Joe Biden come suo vice proprio per il profilo non particolarmente esaltante. Biden era il democratico di lungo corso, bianco, moderato, capace di navigare le asperità di Washington. Era un vice che doveva servire a rassicurare quei settori politici e sociali inquieti per l’ascesa del primo presidente nero e apparentemente radicale. Era un vice che in nessun modo avrebbe però potuto oscurare il nuovo presidente. Obama lo sapeva e per questo lo scelse. Ciò non esclude che, negli otto anni di mandato, Obama e Biden abbiano sviluppato un forte legame personale e che Biden sia stato un consigliere importante per Obama. Ma Biden è sempre stato comprimario, non protagonista. Un uomo dell’establishment, non un politico carismatico e visionario. Queste sono in fondo le ragioni per cui diventò candidato alla presidenza nel 2020. La sua campagna partì in sordina rispetto a quelle ben più rutilanti di Bernie Sanders e di Pete Buttigieg. Dopo il tonfo in New Hampshire (si piazzò addirittura quinto) in molti parlavano del suo ritiro. Fu alla fine la sua affidabilità, la capacità di collocarsi al centro dello schieramento democratico, i rapporti consolidati con grandi finanziatori e base afro-americana a rimetterlo in gioco e rilanciarlo come scelta ragionevole. Fu una scommessa vinta. Dopo quattro anni di Trump, l’America vide in Biden l’uomo in grado di ridare un po’ di pace ed equilibrio. Non fu però una scelta di cuore e passione. Fu una scelta nutrita da stanchezza e inquietudine per il futuro. Quando quindi oggi si afferma che Joe Biden non è “popolare”, si dimentica di dire che Joe Biden non è davvero mai stato un politico “popolare”. Due settimane dopo l’inaugurazione della sua presidenza, nel febbraio 2021, il New York Times pubblicava cifre che mostravano che la popolarità di inizio mandato di Biden, rispetto a quella di Obama, era enormemente più bassa.

Su questo dato storico e personale si è però innestata l’azione politica degli ultimi tre anni. E questa è la seconda ragione delle difficoltà dell’attuale presidente. Si dice spesso che Biden sia troppo anziano e che l’età sarà un handicap importante nella sua rielezione. L’età è sicuramente un elemento significativo, ma non bisogna dimenticare che il suo principale avversario, ancora Donald Trump, ha 77 anni e che tutta la politica americana in questi anni ha conosciuto una certa “senilizzazione” e mancanza di ricambio generazionale. Più che l’età, quindi, vanno considerate un’attitudine ondivaga, una ambiguità, un’incertezza che alla fine hanno scontentato tutti e dato l’impressione di un presidente debole, senza strategia e appunto “anziano”.

Gli esempi sono diversi. C’è la questione immigrazione. Biden era arrivato alla Casa Bianca proclamando di voler ribaltare le scelte di Trump. In realtà, questa amministrazione ha confermato quasi tutto quello che ha fatto la precedente e ora, per ottenere il sì dei repubblicani ai fondi per la guerra in Ucraina, Biden sta discutendo la possibilità di facilitare i rimpatri per i migranti, l’introduzione permanente delle restrizioni decise ai tempi della pandemia, l’inasprimento dei criteri per ottenere asilo. Il voltafaccia rispetto alle promesse non gli ha guadagnato le simpatie dei Repubblicani, che continuano a considerarlo troppo debole in tema di immigrazione, e gli ha alla fine alienato il sostegno di molti settori progressisti e delle minoranze. Nel 2020 Biden sopravanzò Trump di 20 punti nel voto delle minoranze. Oggi, spiega un sondaggio CNN/SSRS, i due sono appaiati al 48%.

Un discorso simile può esser fatto per gli afro-americani. Furono i neri del South Carolina a ridare slancio alla campagna di Biden nel 2020. Anche qui le attese erano molte, perché tante erano state le promesse. Non è successo quasi niente. Biden non è riuscito a realizzare i piani di cancellazione del debito studentesco, essenziale per molti giovani afro-americani. In molti Stati sono state approvate misure per limitare il voto dei neri. E la riforma dei Dipartimenti di polizia è rimasta sulla carta. È vero che sono stati in larga parte i repubblicani a far fallire i piani dell’amministrazione. Ma è anche vero che c’è un baratro tra quanto promesso e quanto realizzato e questo baratro nutre un senso di frustrazione, di disorientamento, di insoddisfazione in larghi settori della comunità nera. Un sondaggio Associated Press/Norc di questo mese mostra che il 50% degli afro-americani approva l’azione di Biden. Era l’86% nel luglio 2021.

Stessa sensazione di debolezza si sta peraltro diffondendo in queste ultime settimane sulla guerra a Gaza. Da un lato Biden ha continuato ad affermare il sostegno all’operazione militare di Israele. Dall’altro, i numeri del massacro di civili palestinesi e l’indignazione internazionale hanno costretto l’amministrazione a fare pressioni, quasi sempre attraverso canali diplomatici privati, sul governo israeliano. La cosa non ha sortito alcun effetto, comunicando all’America e al mondo un’impressione di inefficacia e incertezza. Secondo un sondaggio del New York Times, il 57% degli americani disapprova l’azione di Biden su Gaza. Il 46% pensa che Trump farebbe un lavoro migliore.

C’è però un terzo elemento che forse spiega l’impopolarità con cui Biden conclude il suo 2023. Non ha a che fare con il suo carattere, con la sua figura politica, con la sua azione alla Casa Bianca. Ha a che fare piuttosto con l’America, con un Paese che negli ultimi anni appare sempre più rissoso, spaccato, incapace di darsi obiettivi comuni e di ritrovarsi su valori condivisi. È un processo lungo, che prende corpo negli anni di Bill Clinton, si rafforza durante le presidenze di George W. Bush e di Barack Obama ed esplode con sconvolgente violenza negli anni di Donald Trump. Biden si era candidato alla Casa Bianca con la promessa di “riportare la pace in America, perché non ci sono due Americhe ma c’è l’America”. La promessa è presto svanita. La pandemia è finita, l’inflazione è scesa, il lavoro tornato. Ma Biden non ha trovato risposte al senso di paura e disperazione che da anni soffia sul Paese e la sua gente. È questo fallimento che si ritrova in quel numero umiliante, 38%, che descrive la scarsa passione degli americani nei confronti del loro presidente. È questo fallimento che si allunga sulle prossime elezioni e che alimenta un’ipotesi sino a qualche tempo fa impossibile e indicibile. Che Joe Biden si faccia da parte. Che non sia più lui il candidato democratico alle presidenziali 2024.

TRUMP POWER

di Furio Colombo 12€ Acquista
Articolo Precedente

Allerta terrorismo per Natale e Capodanno in Austria, Germania e Spagna: arrestati presunti membri di Isis. Controlli rafforzati nelle chiese

next
Articolo Successivo

Argentina, prime grane per Milei: un giudice accoglie un’azione collettiva per dichiarare incostituzionale il mega-decreto

next