Ai genitori di Mahsa Amini non rimarrà nemmeno il Premio Sakharov 2023 assegnato alla loro figlia. Al suo arrivo dalla Francia, ancora all’aeroporto Khomeini di Teheran, il loro avvocato è stato infatti fermato dalle forze di sicurezza che gli hanno sequestrato il premio conferito annualmente dall’Unione europea, oltre al cellulare e al passaporto.

A dare la notizia sono stati gli attivisti curdi per i diritti umani secondo i quali Mohammad Saleh-Nikbakht è stato intercettato e interrogato ieri sera. Si tratta dell’ennesimo schiaffo alla memoria della 23enne curdo-iraniana morta mentre si trovava in custodia della polizia morale iraniana per aver indossato male il velo. La sua storia e il suo ricordo sono stati la scintilla che ha fatto divampare le proteste in tutto il Paese contro le imposizioni del regime degli ayatollah. Manifestazioni che hanno portato in piazza milioni di persone e che hanno messo a serio rischio la tenuta dell’impianto rivoluzionario. Tanto che l’establishment iraniano ha deciso di arginarle con l’uso della violenza e con arresti di massa.

Ma quella di sabato è stata una giornata buia per i diritti umani in Iran anche per un’altra notizia diffusa invece dalle Nazioni Unite. La Repubblica Islamica sarebbe infatti pronta a eseguire la condanna a morte nei confronti dello scienziato iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, arrestato nel 2016 e condannato nel 2017 con l’accusa di spionaggio e “inimicizia contro Dio“. La sua vicenda è diventata oggetto di una massiccia campagna di sensibilizzazione da parte di Amnesty International che da anni chiede il rilascio del medico ex ricercatore presso il Centro di medicina dei disastri (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. I timori per un’accelerazione della condanna nei confronti di Djalali seguono la decisione della Corte d’Appello svedese di confermare la condanna nel Paese scandinavo dell’iraniano Hamid Nuri per il suo ruolo nell’esecuzione di massa e nella tortura di oppositori nel 1988 nel carcere di Karaj.

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