In anteprima giusto per chi ci legge all’estero, parliamo del Ferrari di Michael Mann. Uscito in Italia prima di tutti il 14 dicembre, da noi ha incassato 1 milione di euro e poco più in versione doppiata, piazzandosi al 4° posto del nostro box office. Negli Usa esce a Natale, ma agli americani poco importerà di quell’inglese maccheronico dei “buongiorno” in italiano. Chissà poi perché questo velo da Little Italy su Maranello.

La storia guarda al 1957 culminando con il tragico incidente di De Portago durante la Mille Miglia. Da attore ne esce bene Adam Driver, monolitico ed espressivamente pokeristico, ricalca degnamente un Enzo Ferrari nascosto dagli occhiali neri, uomo sospeso tra due famiglie, una segreta, entrambe dedicate in realtà al Cavallino. Overacting invece per Penelope Cruz nei panni della moglie tradita. Non è tanto una questione di regia la bruttezza del film, quanto di una scrittura che sbaglia l’arco di tempo e lo racconta senza epica, facendo sembrare il tutto un pilot sbilanciato e poco riuscito di quella che poteva essere invece, sotto tutt’altro criterio, una saga più potente di The Crown. La regia però non sbaglia a descrivere con bei giochi prospettici e di messa a fuoco quell’epoca di velocità vibranti, motori analogici, sicurezza scarsa e gli occhialoni paravento che pendevano, inseparabili, anche dai borsoni in pelle dei piloti in viaggio su romantici treni. Ecco, in questo senso un po’ di poesia vintage c’è. E a livello visivo la troviamo anche in certe corse in Emilia e sulla piana di Campo Imperatore al cospetto del Gran Sasso in Abruzzo, con le strade circondate di verde.

Per Netflix gira invece il suo Balla coi Lupi quel guascone di Bradley Cooper. Il suo Maestro ricalca la vita di Leonard Bernstein non proprio dal punto di vista musicale ma sembra indagare più sulla musicalità dell’anima di un genio. Sua moglie ne sopportò silenziosamente i tradimenti e la regia in alcuni punti è magnifica. Come nella coreografia metaforica con i marinai in un musical per rappresentare la sua omosessualità. Il trucco prostetico funziona molto più per il ‘Lenny’ anziano che per quello giovane, invece. E anche Cooper stesso, nell’invecchiamento e nella direzione orchestrale ti ruba il cuore. Si vedono chiaramente il lavoro e la tribolazione dell’attore per una parte così complessa e se ne capisce anche la sintesi un po’ estrema su un vero gigante della musica contemporanea. Esce solo su piattaforma il 20 dicembre e timidamente in qualche sala. Grazie a questa manovretta distributiva verrà nominato agli Oscar. E probabilmente saranno diverse le nomination. Intanto quelle ai Golden Globes sono 4.

Stessa spiaggia, stesso mare, pardon, stessa data d’uscita e stessa piattaforma, Rebel Moon – Parte 1: la figlia del fuoco. Sì, ad aprile arriva pure la Parte 2 ma procediamo per gradi. La grande N rossa realizza il suo Star Wars, o almeno prova a creare versioni alternative e originali di grandi saghe e film di genere, come per anni ci ha dimostrato la sua library. Sceglie Zack Snyder che accrocca allegramente una specie di Compagnia dell’Anello spaziale composta da fustacci che svernano in bar di mostri alieni, lottano per la libertà di un pianeta a doppie lune e di placidi agricoltori in stile Hobbit, e si scontrano con le truppe cattivone dai costumi simil-nazisti di un Re defunto che fa tanto dinastia Atreides in Dune. Ma non confondiamoci se il vero nome della protagonista Kora si rivelerà molto simile a quella del casato invento da Frank Herbert.

Due ore d’invenzioni visive e narrative a fiato corto per fare lo slalom tra tante cose già viste. Non solo le citate, ma pure I 7 Samurai di Kurosawa, Il Gladiatore e altre cosine che vi sfizierete a scoprire dalla sommità dei vostri divani. Sì, vi dirò, almeno in sala rende un po’ meglio per spettacolarità. Ma non brilla per niente. Intrattiene e basta rischiando di farsi dimenticare in fretta. Unica vera novità? Molte donne leader e guerriere. Ma lo sguardo femminista probabilmente non lo salverà.

Se queste sono le prospettive natalizie, a Capodanno si riparte in grande con Hayao Miyazaki che ne fa un altro dei suoi. Capolavori, ovviamente. Che poi non è mai così ovvio, ma tant’è. Il ragazzo e l’airone, uscita l’1 gennaio, ci è piaciuto da morire nella proiezione stampa romana. Questo nuovo sogno su grande schermo ci porta nel Giappone di metà novecento. Un dodicenne dovrà venire a patti con la morte della madre, ma in suo aiuto giungerà la fantasia, un mondo nascosto in un bosco e un misterioso airone cenerino. Opera semi-biografica del maestro giapponese, ogni singolo fotogramma offre la bellezza e la potenza di un quadro. A pastello o tempera che sia.

La poesia di Miyazaki sta in questo suo paradigma capace di fondere paura, mistero, elaborazione del lutto e tenerezza nella narrazione emotiva dei suoi personaggi. Utilizza aironi, parrocchetti e volatili antropomorfi, gioca con il tempo e i suoi simbolismi si legano tanto a culturemi giapponesi quanto a tratti estetici trasversali a ogni cultura. Un film gentile che accarezza l’anima e gli occhi, in corsa per 2 Golden Globes.

Sulla gentilezza si basa anche Wonder White Bird di Marc Forster. In sala dal 4 gennaio, riprende la vicenda di Wonder dove un bambino sfigurato, nonostante un bullo, dimostrava tutto il suo valore a scuola e con gli amici. Ora il bullo è un adolescente che cerca riscatto in una scuola lontana da quel passato. Sua nonna ha il viso e il piglio di Helen Mirren, e il racconto che lei gli farà del suo passato durante l’occupazione nazista in Francia somiglia per struttura narrativa a La Storia Infinita e La Storia Fantastica. Entrambi i Wonder vengono dalle graphic novel della scrittrice americana R.J. Palacio. Con la sua storia di salvezza ebraica rappresenta un piccolo faro cinematografico sul coraggio della gentilezza. Quel coraggio che invece oggi dalle parti di Gaza manca su entrambi i fronti.

Ed è Wim Wenders a chiudere questi sei titoli, anche lui con la gentilezza, ma del suo protagonista Kōji Yakusho. Un attore così illuminato che con i silenzi del suo personaggio, un anziano addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, racconta un’umanità incrollabile all’interno di una megalopoli di sopraelevate, palazzoni senza soluzione di continuità ed esistenze strette senza più cuore dalle tenaglie dell’ipercapitalismo. Questo piccolo uomo solitario si lascia inebriare giusto dalle cassette di Lou Reed e tanti altri classici, scatta fotografie agli alberi irradiati dal sole e guarda la città dai finestrini del suo furgoncino superaccessoriato. Con Perfect Days Wenders va oltre la lezione di Ozu portando su grande schermo la dignità del lavoro, anche quello giudicato più infimo. La sua piccola storia di cinema del reale è già stata designata Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI. In Italia arriva il 4 gennaio e sarà uno dei primi film autoriali imperdibili del 2024.

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