Nessun risarcimento dallo Stato, i ministeri non devono pagare per il mancato soccorso pubblico alle 140 persone morte a bordo del Moby Prince, il traghetto andato a fuoco nella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 dopo una collisione con una petroliera davanti al porto di Livorno. Lo ha deciso, confermato la sentenza di primo grado, la Corte d’appello di Firenze che ha respinto il ricorso dei legali dei familiari delle vittime di quella strage di 32 anni fa. Anzi, i giudici Ernesto Covini, Giulia Conte e Paola Caporali hanno condannato le famiglie a pagare circa 15mila euro di spese legali a beneficio dei ministeri della Difesa e delle Infrastrutture.

Per comprendere il motivo della sentenza è necessario fare un passo indietro: i familiari hanno appreso solo il 22 gennaio 2018, con la relazione finale della prima Commissione d’inchiesta (al Senato), che i loro cari erano rimasti in vita molto oltre il momento della loro presunta morte definito dalla sentenza del tribunale di Livorno del 1997: ovvero le 22.55 del 10 aprile 1991, tempo entro cui nessun soccorso pubblico avrebbe potuto salvare chi era imbarcato su Moby Prince, per limiti tecnici insuperabili scritti in sentenza. La perizia medico-legale sui tempi di sopravvivenza allegata alla relazione della commissione firmata dai professori Gian Aristide Norelli e Elena Mazzeo ha invece descritto per larga parte delle vittime tempi certi di sopravvivenza di ore e l’esempio-limite è quello del caso noto di Antonio Rodi, sopravvissuto fino alle 7 del mattino successivo.

Per i familiari delle vittime del Moby questa è stata una novità, bene sottolinearlo, solo perché quella dei professori Norelli e Mazzeo è ed è rimasta la prima e unica perizia medico legale terza disposta dallo Stato italiano sulla base dei dati medico legali rilevati dall’equipe del pubblico ministero dopo l’incidente. Il tribunale di Livorno all’epoca arrivò infatti a definire in sentenza il tempo limite di vita a bordo dopo la collisione, dato cruciale per stabilire la responsabilità del mancato soccorso, non con una consulenza medico legale ma solo tramite una discussa perizia ingegneristica sullo scenario post collisione, che lo descrisse incompatibile alla vita in massimo venti minuti dall’innesco dell’incendio che coinvolse i due natanti. Questo nonostante sul solo Moby Prince si ebbero vittime mentre l’unico superstite fu recuperato un’ora e venti minuti dopo la collisione e soprattutto sopravvissero tutti i membri dell’equipaggio della petroliera Agip Abruzzo, con la quale il traghetto si era scontrato.

Moby Prince
Le manate su un furgone nel garage del Moby Prince sono la dimostrazione che a bordo della nave la sopravvivenza fu possibile molto di più dei 20 minuti dall’impatto, come stabilì la sentenza di primo grado

Da questa ricostruzione della perizia è partita l’iniziativa dei familiari davanti al tribunale civile di Firenze nei confronti della Capitaneria di Porto e della Marina Militare accusate di aver omesso il soccorso pubblico quella notte. Una tesi respinta dalla Corte d’appello di Firenze che, in linea con la sentenza di primo grado, ha confermato di ritenere che “la Commissione parlamentare di inchiesta, nella sua relazione finale, non ha individuato nuovi e diversi elementi di fatto sui quali poter fondare nuove ipotesi di responsabilità ma, piuttosto, ne ha soltanto fornito una lettura diversa, ovvero una valutazione diversa degli stessi elementi già conosciuti ed accertati in sede penale”. In pratica secondo i giudici la perizia medico legale non ha alcun valore giuridico. In aggiunta la corte ha anche ammonito i familiari delle vittime che la prescrizione della richiesta di risarcimento danni finiva due anni dopo la sentenza di appello del primo processo sul disastro, quindi il 5 febbraio 2000. Cioè diciotto anni prima che avessero avuto conferma dallo Stato con una perizia firmata da due professori di università dello Stato nominati da una commissione d’inchiesta del Senato della Repubblica, che lo stesso Stato – quella notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 – lasciò morire 140 suoi cittadini per ore. Ad oggi, senza saper spiegare neanche il perché e, a quanto pare, pensare di doverne rispondere.

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