Chi inizia a lavorare ora si prepari ad una lunga, lunghissima, vita professionale. Nell’ipotesi in cui il primo lavoro (con contratto regolare) cominci a 22 anni, in Italia la pensione arriverà 49 anni dopo, a 71 anni. Il calcolo è contenuto nel Rapporto Pensions at a glance messo a punto dall’Ocse. La soglia italiana è quella più alta tra i 38 paesi che fanno parte dell’Organizzazione dopo la sola Danimarca. “Per chi entra ora nel mercato del lavoro, si legge nello studio, l’età pensionabile normale raggiungerebbe i 70 anni nel Paesi Bassi e Svezia, 71 anni in Estonia e Italia e anche 74 anni in Danimarca. Nel 2023, “l’età pensionabile legale in Italia è di 67 anni, in forte aumento dopo le riforme attuate durante la crisi finanziaria globale. Ma l’Italia “garantisce un ampio accesso al pensionamento anticipato, spesso senza una penalità”.

Al momento, in Italia, l’età “normale di pensionamento” è di circa 65 anni, leggermente sopra la media Ocse (64,1). Per chi comincia a lavorare ora invece l’età media di uscita, a meno di nuove norme per l’anticipo, supererà di circa quattro anni la media Ocse. L’Italia è uno dei nove paesi Ocse – si legge – che vincolano il pensionamento legale per età con la speranza di vita. In un sistema contributivo tale collegamento non è necessario per migliorare le finanze pensionistiche, ma mira a evitare che le persone vadano in pensione troppo presto con pensioni troppo basse e per promuovere l’occupazione”. In sostanza, dice Ocse, gli stipendi sono bassi, di conseguenza anche i contributi nonostante alte aliquote, e così l’unico modo per non patire la fame negli anni dell’anzianità è rimandare il più possibile il ritiro dal lavoro.

I tassi di occupazione nelle fasce di età più anziane (60-64 anni) , spiega l’Ocse, sono al livello più basso dopo la Francia e la Grecia. “Le possibilità di andare in pensione prima dell’età pensionabile prevista dalla legge risultano molto vantaggiose. La concessione di benefici relativamente elevati a età relativamente basse nell’ambito delle Quote contribuisce alla seconda più alta spesa per la pensione pubblica tra i paesi Ocse, al 16,3% del Pil nel 2021. Sebbene l’aliquota contributiva sia molto elevata, le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo l’11% circa del Pil e necessitano di ingenti finanziamenti fiscalità generale”. Per chi comincia a lavorare ora intorno ai 22 anni si prevede con l’aumento dell’aspettativa di vita che si vada in pensione a 71 anni ma che si abbia un importo della pensione rispetto allo stipendio al momento del ritiro di circa l’83% a fronte del 61% medio dell’Ocse. Nel complesso, l’aliquota media di contribuzione effettiva per le pensioni nei paesi Ocse è del 18,2% del livello salariale medio nel 2022 con l’Italia che ha la quota obbligatoria più alta, al 33%. È bene comunque ricordare che se gli stipendi sono bassi (e quelli italiani sono tra i più striminziti dell’area euro) anche con un’aliquota alta i contributi in valore assoluti restano modesti.

In passato, quando in Italia vigeva il sistema retributivo (con l’assegno pensionistico parametrato all’ultimo stipendio percepito, un sistema che regge finché le persone che entrano nel mondo del lavoro superano quelle che vanno in pensione, da tempo non più il caso dell’Italia) le erogazioni erano ben più generose. Il sistema retributivo è stato gradualmente sostituito dal 1996 ma al momento ancora il retributivo pieno copre ancora una quota consistente dei pensionati. Per questo, rileva l’Ocse, il reddito medio delle persone di età superiore ai 65 anni in Italia “è leggermente superiore a quella della popolazione totale” (al 103%) mentre è in media inferiore del 12% nell’area Ocse (all’88%).

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