Pochi giorni e già la vicenda di Paola Concia e la cancellazione delle tre coordinatrici, che dovevano seguire un progetto “Educare alle relazioni”, è sepolta nell’oblio. Nell’era dei social le notizie vengono consumate freneticamente e nella drammatica debolezza della classe politica il concetto di “memoria” affonda nell’inseguimento delle reciproche dichiarazioni affidate a Twitter (pardon “X”). Ma è un errore.

La storia della nomina annunciata e poi rimangiata esemplifica in maniera potente l’idea della riforma del premierato come lo vuole il governo Meloni. Un “premierato arraffa-arraffa”, che non ha niente a che fare con un rafforzamento su base costituzionale del ruolo del presidente del consiglio. Ma che ha invece come unico obiettivo l’occupazione delle istituzioni considerate un bottino di cui disporre a piacere per cinque anni senza controlli. Che c’entra, si potrebbe dire, l’educazione alle relazioni sentimentali con la riforma avanzata dal governo destra-destra? C’entra, c’entra – direbbe Totò.

C’entra, perché l’ipotesi del ministro Giuseppe Valditara (nonostante la sua primigenia militanza in Alleanza nazionale) era ispirata alla saggezza politica democristiana, secondo la quale il potere è tanto più longevo quanto più sa concedere spazi di pluralismo, pur mantenendo saldamente le mani a impugnare il timone. La scelta delle tre coordinatrici era, sul modello della lottizzazione della Rai di un tempo, un esempio di come confezionare un prodotto mescolando ingredienti diversi. Una suora, Monia Alfieri, saldamente legata alla conferenza episcopale. Un’avvocata dello Stato, Paola Maria Zerman, ex candidata del partito Popolo della famiglia di Mario Adinolfi. Una ex deputata Pd, esponente della cultura Lgbtq e delle tematiche cosiddette gender, Paola Concia.

Che cosa di “male” avrebbe potuto far questa triade, vista l’immediata, furiosa reazione dei dipartimenti femminili di Lega e Fratelli d’Italia? Quale catastrofe avrebbe potuto recare ai rapporti dentro e fuori le famiglie una personalità come Paola Concia, attaccata istericamente dal movimento Pro Vita e Famiglia, nonostante il suo pacato e dialogico di affrontare i problemi? Che fastidio dava una personalità laica e indipendente che non teme neanche di opporsi apertamente alla pratica dell’utero in affitto? La risposta sta nelle motivazioni esibite da Pro Vita e Famiglia, che nel suo fanatismo mostra la nudità dell’(aspirante) sovrano, come nella favola di Andersen. Paola Concia ha una “visione… radicalmente incompatibile con i valori della maggioranza degli elettori, che hanno votato i partiti che sostengono il governo Meloni”.

E’ questo il punto chiave da cui traspare tutta l’ideologia del nuovo potere, che la cosiddetta riforma del premierato vorrebbe sancire per legge. Ciò che detta la maggioranza deve realizzarsi in tutti i rami della vita sociale. Non ci deve essere spazio per una pluralità di voci. Nemmeno se si tratta di lavorare insieme, venendo da esperienza differenti.

La riforma inganno è lo specchio di questa mentalità. E poiché gli arraffa-arraffa sanno di non avere alle spalle la maggioranza del paese, ecco che nella legge viene inserito il comma truffaldino della maggioranza di seggi del 55 per cento, assegnato a chi è in testa nelle urne. Anche se rimanesse ben al di sotto del 50 per cento. Inoltre viene sancito per legge che deputati e senatori, rappresentanti del popolo a tutti gli effetti, non devono avere il potere di scegliere liberamente, senza costrizioni, un altro presidente del consiglio se la prima scelta si dimostrasse sbagliata: per incompetenza, per errori, per corruzione, per fallimento, per mutata situazione internazionale o grave crisi economica.

No, i deputati e i senatori eletti dal popolo, dovrebbero essere costretti a scegliere all’interno di un perimetro ben delimitato. Altrimenti – come scolari disubbidienti – verrebbero rimandati a casa.

E’ questo il punto saliente della falsa riforma. E su questo spossessamento della sovranità popolare, che si esercita nel parlamento, che dovrebbero insistere gli oppositori. Non sui poteri di Mattarella, che per gli uomini e le donne in fila alla fermata dell’autobus ogni mattina rimangono un concetto del tutto astratto. Perché il nocciolo del premierato formato Meloni è che il popolo per cinque anni non ha poteri di controllo, di licenziamento e di libera sostituzione.

Su come la “maggioranza inamovibile” intende esercitare il potere, la vicenda Concia è illuminante. Non c’è la minima base culturale, perché cultura significa misurarsi con le voci reali presenti nel Paese. Non c’è il minimo riconoscimento del cammino sociale e psicologico, compiuto dall’Italia in questi decenni, cammino di cui Paola Concia è nella sua vita una testimonianza.

C’è invece l’insistenza ossessiva nel pretendere “l’unico pensiero accettato è il mio”. Ed è – si guardi al fanatismo di Pro Vita e Famiglia – un pensiero mitologico su una “famiglia” che non c’è più. Che ha perso da tempo la capacità di educare, guidare, indicare limiti e comportamenti etici pubblici e privati. Un famiglia, nella sua maggioranza totalmente inetta nel sapere indicare un codice di comportamento sessuale e sentimentale. Una famiglia a cui si vorrebbe affidare il discorso sui rapporti più intimi quando è già noto e stranoto che il 30 per cento dei ragazzi e delle ragazze fra gli undici e i dodici anni attinge dalla pornografia i rudimenti del suo sapere (e della sua ignoranza). E più salgono gli anni e più questa percentuale si amplia.

Ecco cosa insegna, al di là della cronaca, la cacciata della Concia e la sconfitta del timido tentativo di Valditara. Un’ansia di potere che collega il pubblico e il privato. Per sottomettere l’uno e l’altro.

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