I decreti-legge sono troppi e non si riesce a convertirli? Basta allungare il termine a disposizione: dai canonici sessanta giorni a novanta. È la proposta contenuta in due disegni di legge costituzionalegemelli” (finora passati quasi sotto silenzio) depositati dalla maggioranza, che martedì iniziano il loro iter congiunto in Commissione Affari costituzionali al Senato (relatore il presidente Alberto Balboni di FdI) in parallelo con la riforma sul cosiddetto premierato. La modifica in questo caso è circoscritta al minimo – un solo articolo – ma l’effetto potrebbe essere piuttosto importante: minimizzare il rischio di mancata conversione, come ha notato su Domani la giurista Vitalba Azzollini, significa di fatto legittimare l’abuso dei decreti-legge, permettendo ai governi di ricorrere ancora più facilmente a questo strumento (anche in assenza dei requisiti di necessità e urgenza dettati dalla Carta) e di comprimere ancora di più il ruolo delle Camere.

Eppure i due testi in discussione a palazzo Madama giustificano la proposta proprio con la volontà di tutelare il Parlamento. Nella relazione al primo, depositato a marzo dal senatore Adriano Paroli di Forza Italia, si legge che al momento le assemblee legislative sono costrette “ad accelerare in maniera eccessiva i propri lavori per evitare la decadenza” dei decreti, e quindi (invece di farne di meno) è necessario “permettere un lavoro più attento in sede di conversione”. Pertanto il ddl, di appena tre righe, modifica l’articolo 77, terzo comma della Costituzione sostituendo le parole “sessanta giorni” con “novanta giorni”. Quasi identico il secondo provvedimento, presentato a settembre dal leghista Paolo Tosato (vicepresidente della Commissione Affari costituzionali), che però aggiunge un’ulteriore previsione: la prima Camera a cui viene presentato il decreto da convertire deve concludere l’iter entro sessanta giorni, “al fine di consentire un esame approfondito in entrambi i rami del Parlamento”. Secondo il Messaggero, poi, Fratelli d’Italia sta ragionando su un’ulteriore soluzione (di dubbia compatibilità con i principi costituzionali): il “disegno di legge a data fissa”, che cioè entra automaticamente in vigore se non viene approvato dal Parlamento entro un dato termine.

Una riforma di questo tipo semplificherebbe la vita a tutti i governi, ma in particolare a quello in carica: come ricorda Openpolis, infatti, nell’attuale legislatura le conversioni di decreto rappresentano il 50% delle leggi approvate, un record assoluto. Nonostante la premier Giorgia Meloni tuonasse contro questa pratica quando era all’opposizione, il suo governo finora è quello che ha pubblicato più decreti al mese: 3,83 nel primo anno in carica, contro i 3,20 del Draghi e 3,18 del Conte-2. A novembre poi c’è stato un nuovo record di voti di fiducia: ben otto, il dato più alto dal 2018 a oggi. Sempre secondo Openpolis, infine, l’attuale esecutivo ha già prodotto ben cinque “decreti minotauro“, cioè decreti-legge non convertiti in tempo, i cui contenuti sono stati “recuperati” in altri provvedimenti perché non perdessero efficacia: l’Aiuti quater, il Milleproroghe 2023, il decreto Enti locali, il decreto per l’alluvione in Emilia e il decreto Asset. Sotto questo aspetto il governo Meloni ha già superato il primo Conte (tre decreti non convertiti) e si sta avvicinando rapidamente al secondo (otto). Ancora lontano il governo Draghi (13) che però, insieme al Conte II, ha fronteggiato le fasi più dure della pandemia.

A far notare i rischi del provvedimento e le incoerenze della maggioranza è stato il Pd: “Il prolungamento dei termini per la conversione dei decreti finirà per assorbire del tutto i lavori delle Camere”, ha avvertito il vicepresidente della Commissione Affari costituzionali Dario Parrini nella seduta del 27 settembre, l’unica in cui finora è stato trattato il ddl Paroli (quello di Tosato non era ancora stato assegnato). Ricordando che “a inizio legislatura, la maggioranza aveva annunciato l’intenzione di ridurre l’uso dei decreti-legge, forte del risultato ottenuto alle elezioni che ha garantito un’ampia prevalenza nei due rami del Parlamento. Al contrario, nell’ultimo anno si è registrato un incremento del ricorso a questo strumento”. Mentre il suo collega di partito Andrea Giorgis ha chiesto di “cogliere l’occasione per svolgere un dibattito approfondito, con l’intervento del governo, sull’uso eccessivo della decretazione d’urgenza e su eventuali rimedi a quella che è considerata unanimemente una distorsione delle prassi applicative dell’articolo 77 della Costituzione”.

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